Zimbabwe

Il colpo di stato “dolce” con cui nella notte tra il 14 e il 15 novembre il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe è stato spodestato dai militari dice almeno tre cose sul presente e sul futuro dell’Africa.

La prima rimanda alla Cina. A pochi giorni dallo strano golpe andato in scena nella capitale Harare, appare sempre più evidente il ruolo – indiretto ma comunque molto influente – che Pechino ha avuto nella destituzione di Mugabe a favore del suo ex vice, Emmerson Mnangagwa. Da anni il governo cinese ha messo le mani sui vasti giacimenti di diamanti dello Zimbabwe. Evidentemente la decisione di Mugabe di consegnare le chiavi del Paese all’imprevedibile moglie Grace è stata mal vista da Pechino, che ha virato in modo repentino sul più “affidabile” Mnangagwa per tutelare i suoi investimenti. D’altronde, non può essere un caso il fatto che il generale Constantino Chiwenga, stretto alleato di Mnangagwa del quale è stato compagno d’armi durante la guerra civile del 1964-1979, si trovasse proprio a Pechino pochi giorni prima del rovesciamento di Mugabe.

Questo scenario ribadisce un concetto chiaro già da tempo: la colonizzazione economica dell’Africa da parte della Cina ha raggiunto livelli così profondi da pesare sulle scelte politiche dei Paesi da cui riceve risorse energetiche costruendo in cambio grandi opere, ferrovie, autostrade, porti e aeroporti. Proprio perché bada solo agli affari, Pechino capisce d’anticipo qual è l’interlocutore migliore a cui affidarsi, evitando di commettere l’errore di interessarsi ad altro, vale a dire principalmente la velleità di “esportare la democrazia”, progetto fallimentare in cui si è impantanato l’Occidente non solo in Africa e ancor di più in Medio Oriente. Dandosi queste regole nell’impostazione della sua campagna africana, la Cina si trova davanti a sé praterie lasciate libere dalle ex potenze coloniali (Francia e Regno Unito) e dagli Stati Uniti, che in questo continente continuano a riversare armi, soldati e soldi senza però far emergere una visione geostrategica di lungo respiro.

La colonizzazione economica dell’Africa da parte della Cina ha raggiunto livelli così profondi da pesare sulle scelte politiche dei Paesi su cui investe

Il secondo aspetto che emerge dal golpe in Zimbabwe chiama in causa quei presidenti che, al pari di Mugabe (le cui condizioni di “resa politica” devono però ancora essere definite), non hanno alcuna intenzione di lasciare il potere nonostante lo detengano da decenni. La lista è lunga: Idriss Déby Itno, presidente del Ciad dal 1990; Denis Sassou Nguesso, al potere in Repubblica del Congo, seppur a fasi alterne, dal 1979; Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda dal 1986; Paul Kagame, presidente del Rwanda dal 2000; Omar al-Bashir, presidente del Sudan dal 1989; Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, presidente della Guinea Equatoriale dal 1979; Isaias Afewerki, presidente dell’Eritrea dal 1993; il monarca assoluto dello Swatziland Mswati III, in carica dal 1982. Aspettarsi un effetto domino dopo i fatti di Harare è ancora prematuro. Ma qualcosa in questa direzione in Africa si sta muovendo in realtà da anni, come dimostra la caduta dell’ex presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré, costretto a fuggire dal Paese dopo quasi trent’anni al comando.

Il terzo elemento, infine, è collegato ai militari. Rispetto alle repressioni violente seguite alla salita al potere del generale Abdel Fattah Al Sisi in Egitto al posto dell’esponente dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi nel luglio del 2013, in Zimbabwe i militari – almeno finora – si sono pubblicamente impegnati a farsi garanti di una transizione pacifica. Seppur con le dovute differenze, qualcosa di simile è accaduto in Gambia a inizio 2017 con l’esercito che non ha preso le parti del dittatore Yahya Jammeh (rimasto al potere per 22 anni) accettando l’esito del voto popolare che aveva premiato l’oppositore Adama Barrow. Nell’insieme, gli attesi avvicendamenti registratisi in Burkina Faso, Gambia e Zimbabwe dimostrano che l’Africa sta maturando percorsi democratici che restano però inevitabilmente lenti e problematici. Si tratta, comunque, di forme di democrazia per natura “diverse” rispetto a quelle che intendiamo noi occidentali, in cui il ruolo dominante dei tradizionali poteri forti (in primis l’esercito seguito dalla religione) è destinato a rimanere tale. Se impareremo a capire queste dinamiche, forse un giorno potremo far valere il nostro modo di cooperare, piuttosto che inseguire la Cina sul piano dell’aggressività economica: quest’ultimo è un confronto in cui il divario è ormai incolmabile.