Ahmad Shāh Massoūd e l'11 settembre

La mattina del 9 settembre del 2001 due uomini, che si presentano come Karim Touzani e Kacem Bakkali, giornalisti della televisione “Arabic News International”, arrivano nel villaggio di Khvājeh Bahāʾ od-Dīn, nel nord dell’Afghanistan. Dicono di avere un appuntamento con Ahmad Shāh Massoūd, il comandante tagiko e leader “dell’Alleanza del Nord” che si oppone ai talebani, conosciuto anche come “il Leone del Panjshir”.

Il comandante tagiko Massoūd li ha fatti aspettare per quasi un mese. Ignora che i due reporter siano in realtà Dahmane Abd al-Sattar, alias di Abdessatar Dahmane all’epoca marito di Malika El Aroud alias Oum Obeyda, e Hassan El Haski, colui organizzò gli attentati di Casablanca nel 2003 e di Madrid nel 2004 . I due uomini sono entrambi di origine tunisina ma con passaporto belga, non sono giornalisti e non lavorano per “Arabic News International”, che peraltro non esiste. Sono due terroristi kamikaze che si sono procurati i documenti belgi intestati a Karim Touzani e Kacem Bakkali grazie al terrorista tunisino con passaporto belga Tarek Maaroufi, affiliato anch’egli ad Al Qaeda. I passaporti sono stati rubati nel 1999 dalle ambasciate di Strasburgo e all’Aja. I due in Afghanistan non ci arrivano dal Marocco o dalla Tunisia, ma dal quartiere di Molembeek (Bruxelles), che un decennio più tardi diventerà tristemente celebre per essere il crocevia del terrorismo salafita in Europa.

Entrambi frequentavano le moschee estremiste del quartiere che erano sotto l’influsso dell’emiro Seifallah Ben Hassine, alias Abou Iyadh (morto in Libia nel 2015), loro connazionale e capo e fondatore in Tunisia di Anṣār al-Sharīʿa, organizzazione terroristica salafita. I due uomini alle 12.00 circa si accomodano nello studio di Massoūd, che comunica loro: «Non ho piu’ di 15 minuti». C’è solo il tempo di due banali domande,  alle quali il comandante tagiko non ha neanche il tempo di rispondere. Abdessatar Dahmane attiva la bomba nascosta nella finta telecamera con la quale è entrato. Dahmane muore sul colpo, mentre il comandante tagiko ha uno squarcio dal petto e alla gola ed è in condizioni disperate. Il secondo terrorista rimasto illeso riesce in un primo momento a fuggire, poi viene fermato e ricondotto al villaggio. Da qui fugge di nuovo ma dopo pochi minuti gli uomini di Ahmad Shāh Massoūd lo catturano e lo fanno letteralmente a pezzi sul posto. Massoūd, irriducibile mujaheddin anti-talebani, muore dopo quattro giorni di indicibili sofferenze. Nell’aprile del 2001 disse a Ettore Mo, leggendario inviato di guerra del Corriere della Sera: «L’Europa non capisce che non combatto per il Panshir ma per fermare l’integralismo islamico». Nessuno lo ascoltò, forse nemmeno gli americani ai quali pare avesse anche rivelato che Osama Bin Laden aveva in preparazione un grossa azione contro di loro e che li avrebbe attaccati molto presto in patria. La notizia della morte del “Leone del Panjshir” arrivo’ solo il 15 settembre 2001 mentre l’America e il mondo erano in ginocchio per quanto accadde la mattina dell’11 settembre 2001.

A diciotto anni da quella tragedia, il kuwaitiano Khalid Sheikh Mohammed, sempre indicato come la mente mente degli attacchi dell’11 settembre del 2001, dal carcere di Guantanamo dove è detenuto avrebbe proposto al governo americano un accordo: la sua collaborazione nella causa intentata dalle famiglie delle vittime contro l’Arabia Saudita in cambio dell’annnullamento della pena di morte.

Ahmad Shāh Massoūd, eroe nazionale dal 2002, è sepellito a Bazarak, nella valle del Panjshir dove nacque. Nessuno è mai stato in grado di provare se il comandante tagiko avesse avvisato gli americani degli attacchi dell’11 settembre 2001. Se lo fece, fu durante un colloquio verbale del quale non c’è ovviamente traccia. Sono in molti però a credere che se il “Leone del Panjshir” – leader del Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan (o Alleanza del Nord) – non fosse stato ucciso da uomini di Osama Bin Laden, il mondo sarebbe quasi sicuramente un posto migliore.