La conferenza di Palermo di metà novembre sembrava aver riportato le Nazioni unite al centro della crisi libica. Il suo merito più grande è stato quello di fissare una periodizzazione più chiara circa le varie scadenze elettorali (Al Multaqa Al Watani). A qualche mese di distanza si può dire che a quella nuova fase promettente sia seguita l’ennesima disillusione. Ghassam Salame, che guida la missione delle Nazioni unite Unsimil, ha già dovuto posticipare la Conferenza Nazionale (Al Multaqa Al Watani) prevista per gennaio/febbraio 2019, mentre ci si è resi conto che i temi non affrontati a Palermo si ripropongono costantemente ostacolando una risoluzione pacifica.

di Arturo Varvelli

articolo pubblicato su IlFoglio.it

A otto anni dallo scoppio della rivolta libica non sono stati risolti i nodi politici di fondo: resta l’estrema debolezza del governo di unità nazionale (Gna) voluto dalle Nazioni unite; permane un’aggressività militare del generale Khalifa Haftar che sembra continuamente minacciare i precari equilibri sul piano politico-militare; non sembrano essere risolutori i tentativi di coinvolgere le milizie in un dialogo più proficuo nello sforzo di ricondurle sotto un unico cappello nazionale; continuano le interferenze esterne, comprese le violazioni sull’embargo di armi, e permangono i disaccordi di fondo tra gli attori internazionali interessati al paese.

Haftar mette continuamente gli attori locali e la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti. Mentre si discute di complesse formule di compromesso tra le fazioni libiche, il vecchio generale, con una buona dose di sfrontatezza, si dichiara disponibile al dialogo ma poi parla coi fatti. L’avanzata nella Libia meridionale dell’esercito nazionale libico (Lna) da lui guidato, un’operazione lanciata a gennaio, sembra ottenere il sostegno di un’ampia parte della popolazione nella regione. A Sebha, l’Lna è stato in grado di raggiungere accordi con vari intermediari di tribù arabe, tuareg e tebu della città. Ciò gli ha consentito di ottenere posizioni chiave precedentemente controllate dai combattenti tribali. Con la stessa audacia Haftar ha dichiarato di aver preso l’area di Sharara, il più importante giacimento del Fezzan. In prospettiva, l’azione militare potrebbe anche migliorare la sicurezza e la stabilità nel sud, contribuendo a normalizzare la produzione di petrolio in questa regione. La produzione di Sharara è in effetti ferma da alcuni mesi. Tuttavia i rischi sono tanti. L’Eni è ampiamente interessata da queste evoluzioni sul campo. L’importante giacimento di El Feel (detto comunemente Elephant) si trova a circa un centinaio di chilometri di distanza da Sharara. Il pericolo non è tanto un improbabile “cambio di proprietà” dei giacimenti, quanto invece eventuali confronti militari nell’area che finiscano per bloccare la produzione. Più in generale e sul piano politico, l’operazione dell’Lna marginalizza ulteriormente il ruolo del Gna nel sud del paese e, minando gli equilibri tribali, corre sempre il rischio di generare una guerra tra le diverse componenti del sud, principalmente tra gli Arabi e i Tebu. Ma Haftar sembra rafforzarsi sempre di più ergendosi a campione di una futura riunificazione militare del paese.

 


Legenda. In colore rosa: territorio del Governo di unità nazionale di Tripoli di Fayez al-Serraj (17 mila e 35.800 miliziani) – in verde: territorio del sedicente Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar (25 mila miliziani) – a righe: controllo non definibile – in marroncino: avamposti Isis (600 miliziani) – le macchie in colore nero sono i campi petroliferi – le linee gialle sono i condotti petroliferi. A misurata: brigata paracadutisti “Folgore”. Ad Al-Khadim una base militare aeronautica degli Emirati arabi uniti.
La mappa “chi controlla cosa in Libia” è realizzata da Dzsihad Hadelli, collaboratore del Libya Observer, ed è stata pubblicata su Twitter a novembre 2018


 

Relativamente alla situazione di Tripoli, il Gna sta faticosamente cercando di implementare i piani di sicurezza stabiliti negli scorsi mesi, anche con lo scopo di porre fine al potere del cartello di milizie che occupa settori nevralgici della capitale. L’attuazione del “Security Plan 2019-One” ha l’effettivo compito di portare l’area più ampia di Tripoli sotto una unica cabina di regia. Il nuovo ministro dell’Interno Fathi Bashaaga intende riorganizzare la struttura amministrativa e operativa limitando le incoerenze ed evitando mandati operativi sovrapposti dai molteplici gruppi armati affiliati al Gna. Ancora non è chiaro se queste misure saranno in grado di portare maggiore sicurezza. E’ prevedibile che le milizie di Tripoli continueranno a resistere alle riforme, eludendo attivamente l’attuazione del piano e facendo pressioni sugli elementi più intransigenti nei loro confronti, mentre, al contempo, i gruppi di miliziani ai margini della città continueranno a tentare la penetrazione nella capitale. Entrarci vuol dire poter partecipare alla spartizione dell’economia libica.

La crisi libica risulta essere sempre di più la manifestazione della crisi dell’ordine internazionale. La ritirata americana dall’area mediorientale ha dato sostanzialmente il via all’azione di attori regionali spesso in contrapposizione tra loro. Eppure, ancora oggi, solo gli Stati Uniti godrebbero di una leadership tale da poter avere una funzione di mediazione tra gli interessi divergenti degli attori europei; solo loro dispongono ancora di un leverage significativo su alcuni attori regionali che hanno agito da battitori liberi fomentando il caos libico. Se ne è accorto anche lo stesso Bashaaga che, proprio per questo, ha chiesto a gran voce una maggiore presenza politica americana. Tuttavia, uscito di scena il generale Mattis, unico nell’Amministrazione Trump che si era dimostrato interessato al caso libico, continuano a permanere i dubbi su un reale desiderio di impegno degli Stati Uniti in una crisi che hanno sempre voluto osservare a distanza a cominciare dalla formula ambigua del “leading from behind” con la quale intervenne l’Amministrazione Obama nel lontano 2011.