Attacco terroristico a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Spari ed esplosioni si sono registrati nei pressi del quartier generale dell’esercito e dell’ambasciata francese, a meno di un chilometro di distanza dall’ufficio del primo ministro. Testimoni riferiscono di aver visto un gruppo di uomini armati scendere da un’auto e aprire il fuoco verso l’ambasciata. Dopo ore di scontri a fuoco, le forze di sicurezza del Burkina Faso hanno preso il controllo della situazione. Il bilancio provvisorio fornito dal ministero della Comunicazione del Paese parla di sei attentatori neutralizzati e di sette militari uccisi. Di quest’ultimi, cinque sono stati eliminati dagli assalitori nel quartier generale dell’esercito, gli altri due davanti all’ambasciata francese. Di «attacco jihadista» ha immediatamente parlato il sindaco di Ouagadougou, Armand Béouindé. Mentre da Parigi il presidente francese, Emmanuel Macron, ha esortato tutti i suoi connazionali che si trovano nella città a stare alla larga dalla zona in cui sono in corso gli scontri a fuoco.

 

 

I precedenti a Ouagadougou

Ouagadougou non è nuova ad attacchi terroristici di matrice jihadista. Il 15 gennaio del 2016 Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) e Al-Murabitun hanno rivendicato l’attacco all’Hotel Splendid e al Caffè Cappucino in cui vennero uccise 30 persone. Nell’agosto del 2017 due assalitori hanno aperto il fuoco in un ristorante lungo la via principale della capitale uccidendo 19 persone. Mentre risale al settembre del 2015 un colpo di stato condotto da un gruppo di militari fedeli a Blaise Compaoré, che era stato rovesciato dalle rivolte popolari del 2014 dopo 27 anni al governo.

 

Il ruolo della Francia e l’operazione Barkhane

L’attacco di oggi è un’azione mirata a colpire direttamente la Francia, presente nel Paese con i suoi militari nell’ambito dell’operazione Barkhane. L’operazione, avviata nel 2014, vede schierati nel complesso 3.500 soldati tra Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso, il cui compito è cooperare con il G5 Sahel (piattaforma militare in cui convergono gli eserciti dei Paesi sopracitati) per smantellare la fitta rete di gruppi jihadisti che tra Sahel e Africa Sub-sahariana controlla vastissime aree e ha in pugno i traffici di migranti ed esseri umani oltre al contrabbando di armi e droga.

La strategia finora portata avanti da Parigi è stata quella di eliminare i vertici delle organizzazioni jihadiste saheliane. Ma l’effetto prodotto è stato inverso, ovvero ha incoraggiato la formazione di nuove coalizioni jihadiste in cui vari gruppi hanno unito milizie, risorse economiche e capacità logistiche.

 

La minaccia jihadista di Al Qaeda

Per il Burkina Faso e per gli altri Paesi dell’Africa nord-occidentale la prima minaccia jihadista ha il nome di Jamaat Nasr Al islam wa Al mouminin (“Gruppo per la vittoria dell’Islam e dei suoi fedeli”). L’organizzazione è nata nel febbraio del 2017 dalla fusione tra AQIM (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Ansar Eddine, Al-Mourabitoune (“Le sentinelle”) e il gruppo salafita Fronte di Liberazione di Macina. A guidarla è Iyad Ag Ghali, leader di lungo corso dei tuareg del Movimento Popolare dell’Azawad e, dal 2012, a capo di Ansar Eddine (al centro nella foto in apertura). Il 2 marzo del 2017 Iyad Ag Ghali è comparso in un video insieme ad altri quattro leader jihadisti comunicando la nascita della formazione e ribadendo la fedeltà al capo di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, e al leader di AQIM, Abdelmalek Droukdel. Al fianco di Iyad Ag Ghali erano presenti Yahya Abu el Hammam, capo di AQIM nel Sud Sahara, Abu Abdul Rahman al Taher al Jeijely e al-Hasan al-Ansari, comandanti di Al Mourabitoune, e Amadou Kouffa, capo del Fronte di Liberazione di Macina. A tenere le redini della coalizione sono però, di fatto, il leader di AQIM Droukdel e il signore della guerra Mokhtar Belmokhtar. La primula rossa d’Africa è a capo di Al-Mourabitoune, ha recentemente rinsaldato l’alleanza con AQIM dopo un periodo di rottura protrattosi per tre anni (tra il 2012 e il 2015) e in Mali a fasi alterne, in base a interessi del momento, ha cooperato finora sia con Ansar Eddine che con il Fronte di Liberazione di Macina.

Con questa mossa Al Qaeda punta a consolidare la propria presenza nel Sahel in previsione di un possibile spostamento a sud di gruppi affiliati allo Stato Islamico costretti a fuggire dalle roccaforti tenute sotto controllo tra il 2015 e il 2016 lungo le coste libiche. Un fronte più ampio può consentire adesso ai qaedisti di tamponare la diaspora verso l’organizzazione del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi e riaccogliere quei “traditori” che in cambio di condizioni di ingaggio migliori negli ultimi anni non hanno esitato a cambiare bandiera.

Oltre la leadership jihadista nell’area, come noto in palio ci sono gli enormi traffici illeciti che attraversano il Sahel e di cui Belmokhtar è l’indiscusso padrone: la riscossione dei riscatti ottenuti dalla presa di ostaggi originari di Paesi occidentali, i traffici di droga e sigarette (con quest’ultime che sono valse a Belmokhtar il soprannome di “Mr. Malboro”) e il controllo delle rotte dei migranti.

Il nord del Mali e le estese aree di confine con Mauritania, Niger e Burkina Faso rappresentano la base di partenza da cui prende slancio questa nuova vita di Al Qaeda nel Sahel. L’obiettivo, già nel breve termine, è allargare la sfera d’influenza principalmente verso una direzione: l’area al confine tra Libia e Algeria, dove sono concentrati ricchi giacimenti di petrolio e gas. Obiettivi raggiungibili, considerato l’imperversare della crisi libica e l’instabilità politica interna dell’Algeria, destinata ad attraversare una fase di prolungata incertezza nel momento in cui l’anziano presidente Abdelaziz Bouteflika non sarà più in grado di tenere in pugno il potere.