Così l’Isis rinasce in Mozambico

Qui l’offensiva jihadista è iniziata nel 2017 e ha provocato almeno 2.600 morti e oltre 600 mila sfollati nella sola provincia di Cabo Delgado. Da questo Paese africano ricco di risorse naturali, ma con vaste aree di sottosviluppo, gli eredi del Califfato nero vogliono sferrare l’attacco al continente.

Undici giorni di scontri tra miliziani ed esercito regolare. Centinaia di morti, decine di teste mozzate di donne, corpi di bambini straziati e lasciati sul terreno come monito. Accade in Mozambico, Paese immensamente ricco di idrocarburi eppure così povero da non riuscire a emanciparsi dalla violenza.

«Non è stato peggiore di tanti altri attacchi» ha tentato di minimizzare il presidente Filipe Nyusi. Ma la verità è che l’orrore dilaga in buona parte dell’Africa Meridionale, e la conquista da parte dell’Isis della città di Palma, nella regione settentrionale di Cabo Delgado, ne è la dimostrazione più lampante.

Il motivo? Tutti vogliono Cabo Delgado. Perché qui, precisamente nella penisola di Afungi, si trova il più importante bacino di estrazione di gas naturale dell’intera Africa. Scoperto nel 2010, ha sconvolto per sempre le dinamiche della politica locale. Anche perché l’estrazione di idrocarburi in quest’area vale qualcosa come 150 miliardi di dollari e la prima produzione di gas naturale liquefatto (prevista per il 2024) è stimata in non meno di 43 milioni di tonnellate l’anno.

Attualmente, il sito è gestito dai francesi della Total, ma qui sono presenti e contribuiscono anche l’italiana Eni e altri giganti, come l’americana ExxonMobil. Insomma, la proverbiale «mano straniera» con cui il governo di Maputo è lieto di fare affari, anche perché alimenta un giro di corruzione gigantesco. Cosa che, neanche a dirlo, è assai sgradita alla fascia di popolazione più povera, che si è vista scippare ogni speranza di poter gestire  questa ingente ricchezza intrappolata nel sottosuolo mozambicano.

Ed ecco che l’incursione jihadista a Palma del 24 marzo è il memento più lampante da parte di chi non ha più nulla da perdere, ovvero contadini e possidenti che hanno visto le proprie case e i propri terreni espropriati dal governo: intere comunità sono state sradicate in pochi anni senza ricevere niente in cambio. Anzi, i contratti di estrazione e sfruttamento dei terreni sono stati affidati direttamente a società straniere, creando le premesse perché una parte della popolazione finisse dritta tra le braccia dei jihadisti. Che, per parte loro, hanno sfruttato abilmente la situazione per intestarsi la lotta di riconquista in salsa jihadista.

Proprio i miliziani dello Stato Islamico, attraverso la milizia locale degli al-Shabaab (che però nulla hanno a che vedere con i «colleghi» somali, né hanno legami con Al Qaeda) a partire dal 2017 hanno iniziato a fare proseliti e a recapitare armi per rendere il Mozambico una polveriera. Forti della vitalità del Califfato in Medio Oriente e nel resto del continente africano, da allora hanno messo a segno centinaia di attacchi, terrorizzando l’intero settentrione del Mozambico.

L’assalto a Palma, perciò, rappresenta solo l’ultima tappa di un percorso che punta a radicalizzare lo scontro tra Maputo e la popolazione di Cabo Delgado, sotto le mistificate insegne del Profeta Maometto. L’Isis, del resto, in questo modo ha già assoggettato intere aree dell’Africa, così come ha tentato di fare in Siria e Iraq, perseguendo tattiche a dir poco brutali, e usando le decapitazioni a scopo eminentemente intimidatorio. La ong Acled ha contato almeno 2.600 morti e 600 mila sfollati da Cabo Delgado negli ultimi anni, cioè esattamente da quando il Mozambico ha scoperto di essere una grande potenza energetica.

«Il disinteresse del governo per i conflitti interni all’Islam tradizionale mozambicano, il rancore sociale dovuto alla corruzione endemica e i sogni infranti dei giovani che sognavano di gestire il gas e petrolio di cui il Mozambico è ricco, hanno creato le condizioni perfette per i reclutatori del Jihad. Si tratta perciò di un’islamizzazione della rivolta, in reazione alla marginalità e all’abbandono da parte del governo» spiega Mario Giro, già viceministro degli Affari esteri e cooperazione internazionale durante i governi Renzi e Gentiloni.

«Le origini del jihadismo mozambicano sono ancora misteriose, ma quattro anni di violenze da parte di chi non vuole lo sfruttamento del gas mozambicano rivelano che la volontà dello Stato Islamico di estendere la lotta da Zanzibar alla Tanzania al Mozambico, è qualcosa di sempre più concreto» conclude l’esperto.

In effetti, la narrazione dei jihadisti è che soltanto imbracciando le armi e adottando la legge islamica ogni differenza sociale verrà abbattuta; così come le enormi ricchezze che si trovano nel sottosuolo e nel mare del Mozambico verranno ridistribuite agli ultimi non appena vinta la «guerra santa». Alla popolazione viene pertanto chiesto «di ribellarsi allo Stato, di non pagare le tasse e di non accettare il sistema educativo corrotto», seguendo esattamente le stesse modalità usate ad esempio da Boko Haram in Nigeria. E, vista la totale marginalizzazione socio-economica delle comunità locali, il messaggio jihadista non poteva che attecchire tra i più giovani.

Date le loro capacità e tecniche di guerriglia, gli Al-Shabaab locali sono da tempo stati «promossi» dal governo di Maputo, che non li descrive più semplicemente come ribelli, ma come «organizzazione terroristica straniera». Non è un aspetto di poco conto: questa fazione in armi si avvale ormai di foreign fighters esperti (specie per i comandanti), evidenziando la dimensione internazionale del Jihad africano. Nondimeno, anche il governo centrale è costretto a fare lo stesso: durante l’assedio di Mocimboa da Praia dell’agosto 2020, le forze armate mozambicane hanno dovuto chiedere aiuto ai contractor sudafricani del Dyck Advisory Group (DAG) per espellere dal porto cittadino la branca locale dell’Isis, che ne aveva rivendicato la conquista.

Gli al-Shabaab del Mozambico sono ritenuti responsabili di qualcosa come 700 incursioni intorno a Cabo Delgado. Oggi operano sotto il comando di Abu Yasir Hassan, noto anche come Yaseer Hassan o Abu Qasim: cittadino originario della Tanzania, è stato classificato dal Dipartimento di Stato americano come «Specially Designated Global Terrorist» a indicarne la natura di leader appartenente a una rete che si estende dal Sudafrica fino in Siria.

Ciò nonostante, anche se nel 2018 hanno giurato fedeltà all’Isis restano comunque in larga parte espressione di una milizia locale: in attività dal 2015, si ispirano al movimento jihadista del Kenya di Aboud Rogo Mohammed. Nel gruppo militano anche ex soldati e poliziotti, che hanno contribuito ad addestrare militarmente le nuove reclute. Secondo le stime più attendibili, risultano attivi almeno cinquecento uomini bene armati, che si finanziano con il traffico di droga e il commercio illegale di avorio.

Di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi. Pubblicato su Panorama

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