Israele, la questione palestinese irrompe in campagna elettorale

In Israele il premier uscente Benjamin Netanyahu, a pochi giorni dalle elezioni previste per il 17 settembre, ha annunciato l’intenzione, dopo la creazione di un nuovo governo, «di estendere la sovranità israeliana alla Valle del Giordano e alla sponda nord del Mar Morto». Intenzione che, se fosse realizzata, metterebbe forse la parola fine al processo di pace con i palestinesi e che potrebbe trovare il sostegno di Donald Trump. Ma, secondo alcune interpretazioni, si tratta solo di una mossa elettorale per trovare maggiori consensi. Netanyahu, aveva vinto le elezioni dello scorso aprile ma non era stato in grado di formare una maggioranza a causa di divergenze interne alla sua coalizione. Il premier ora si gioca la rielezione puntando sul conflitto con l’Iran e la questione delle colonie palestinesi. Come si concilierà tutto questo con il piano di pace annunciato da Trump?

 

Le elezioni israeliane di martedì 17 settembre non saranno molto diverse da molte altre precedenti: rispetto a quelle di cinque mesi fa, sono praticamente uguali. Una fotocopia forse anche nel risultato finale.

C’è Bibi Netanyahu, presenza ormai storica e apparentemente inamovibile nel panorama politico israeliano; il Likud di destra-centro contende la maggioranza relativa dei consensi al partito di centro-sinistra, surrogato del vecchio Labour ormai in crisi irreversibile e prossimo alla scomparsa; le due forze principali cercano di cannibalizzare i partiti minori con i quali saranno poi costretti a creare una coalizione di governo; la questione palestinese è completamente ignorata; si discute sul grande scontro fra laicità e invadenza religiosa nello stato e nella vita dei cittadini; nonostante il grande numero di partiti per un paese di 7 milioni di abitanti, anche in queste elezioni ce ne saranno uno o due di nuovi, irrilevanti; il governo che nascerà dal voto sarà così pletorico e asfissiato da interessi di parte, che non risolverà nessuno dei problemi di fondo del paese.

Compatibilmente con l’instabilità della regione, tuttavia le cose continueranno come prima, grazie a un’economia che cresce senza tentennamenti da oltre un decennio. La prosperità come digestivo alla paralisi politica nazionale.

Come cinque mesi fa, i sondaggi dividono equamente le chances di successo: una metà prevede che Netanyahu e il Likud conquisteranno 31 dei 120 seggi alla Knesset, mentre a Benny Ganz e a Kahol Lavan, il principale avversario, ne andranno 29; un’altra parte, il contrario. Kahol Lavan, cioè blu e bianco, i colori della bandiera nazionale, è il più recente tentativo di rompere il decennale potere di Netanyahu e delle destre. Se il partito è una sfocata imitazione del vecchio Labour, il suo leader sembra essere molto lontano dal carisma dagli uomini che per decenni hanno guidato in guerra o in pace la sinistra e il paese. Benny Ganz è un ex capo di stato maggiore delle Forze armate e anche in Kahol Lavan è circondato da generali. Il partito è militarmente più interventista del Likud; e in caso di vittoria non ha un piano per riprendere una trattativa di pace con i palestinesi.

Chi prenderà un solo seggio in più dell’altro, sarà chiamato dal presidente della repubblica a formare una maggioranza di governo. Si è tornati al voto perché cinque mesi fa Netanyahu era arrivato primo ma non era riuscito a trovare i necessari alleati: era stato tradito da Avigdor Lieberman, di destra come lui ma laico in opposizione ai partiti religiosi e alle loro pretese. Ora Lieberman è l’asso nella manica di Benny Ganz: se Kahol Lavan arriva primo, Lieberman e il suo partito russo lo aiuteranno ad arrivare a 61 seggi. Tutti contro Bibi, apparentemente. Ma come sempre, l’ipotesi di una coalizione Likud-centro sinistra è la più desiderata.

Poi, come in ogni elezione, c’è il capitolo Israele/Mondo. Nonostante abbiano il più alto numero di startup dell’universo, in proporzione agli abitanti; nonostante dopo gli Stati Uniti, il loro sia il paese con più aziende quotate al Nasdaq di New York; e nonostante la pluridecennale sovraesposizione mediatica internazionale, gli israeliani sono vittime di una sindrome da isolamento: ci tengono che il mondo parli di loro. Così amano il leader che sappia imporli all’attenzione globale, che dimostri quanto gli altri tengono a Israele.

In questo Bibi Netanyahu è un gigante. Durante la precedente campagna, alla fine andata male per colpa di Lieberman, il premier israeliano aveva ottenuto da Donald Trump il riconoscimento dell’annessione israeliana delle alture del Golan. E a Mosca Vladimir Putin lo aveva ricevuto al Cremlino in una commovente cerimonia, durante la quale erano state restituite le spoglie di un soldato israeliano disperso nella guerra del Libano del 1982: Putin si era fatto consegnare la salma dai siriani.

Questa volta per Netanyahu era andata meno bene: aveva incontrato solo l’indiano Narendra Modi. Poi è andato a Londra a stringere la mano a Boris Johnson nel giorno più disastroso nella storia dei primi ministri di Gran Bretagna. Alla fine Putin ha riaperto il Cremlino a Netanyahu: lo riceverà cinque giorni prima del voto in Israele.

È possibile ma non certo alla vigilia del voto che anche Trump decida di fargli un altro regalo: in fondo è difficile immaginare due uomini politici più simili. Le interferenze americane nelle elezioni israeliane, e viceversa, sono una tradizione. Nel 1996 Bill Clinton era intervenuto pesantemente a favore del laburista Shimon Peres.

Tuttavia anche Trump è già in campagna elettorale e se il suo interesse è evitare una guerra con l’Iran, quello di Bibi è invece tenere alto lo scontro. Tutti gli israeliani hanno tremato – nessuno più di Netanyahu – quando al G7 di Biarritz il presidente americano aveva aperto al dialogo con gli iraniani. La stampa israeliana ha dedicato pagine all’ipotesi che l’inaspettato invito di Emanuel Macron al ministro degli Esteri iraniano, e la successiva apertura di Trump, fossero in preparazione da mesi. Gli israeliani stanno conducendo una guerra a bassa intensità contro gli iraniani nel Libano meridionale e in Siria. Ma qualche settimana fa hanno esteso il loro raggio d’azione all’Iraq, mettendo in grave difficoltà gli interessi americani in quel paese. L’implicito ammonimento a Israele e la durezza del comunicato di chiarimento dell’ambasciata Usa a Baghdad, recapitato al governo iracheno, non hanno precedenti. È come se Washington avesse colto il tentativo israeliano di far fallire le prove di riavvicinamento dell’amministrazione Usa a Teheran.

Pubblicato su Il Sole 24 Ore. Leggi l’articolo completo