Le immagini degli ultimi giorni di Tripoli in preda ai combattimenti e al caos confermano per l’ennesima volta l’incapacità della comunità internazionale di venire a capo della questione libica. Perché se è vero che i libici hanno la loro dose di colpe in questa ennesima escalation di violenze che si sta abbattendo sulla capitale, è altrettanto vero che ciò a cui stiamo assistendo è il risultato dello scontro tra gli interessi che diverse potenze straniere hanno portato avanti in Libia negli ultimi anni.

Il caso più evidente è quello di Emirati Arabi Uniti ed Egitto da una parte, e di Qatar e Turchia dall’altra. Come confermato anche da recenti rapporti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Abu Dhabi e Il Cairo non si sono fatte scrupoli nel calpestare il divieto imposto sul trasferimento di armi verso la Libia. Entrambi i Paesi hanno fornito armi pesanti, addestratori e supporto militare diretto (raid aerei) a favore del Libyan National Army del Generale della Cirenaica Khalifa Haftar. Sul fronte opposto prove concrete sono state fornite sul sostegno garantito da Doha e Ankara a fazioni islamiste in lotta con le truppe di Haftar e che in più occasioni hanno provato – senza riuscirvi finora – a prendere il controllo di Tripoli e a destituire il fragile Governo di Accordo Nazionale guidato dal premier Faiez Al Serraj, fatto insediare nella capitale dall’ONU nel marzo del 2016.

In questi dinamiche interne della Libia l’Unione Europea ha fatto poco o nulla per incidere sul tortuoso processo di stabilizzazione del Paese. Discorso diverso vale per i suoi Paesi membri che, al contrario, in ordine sparso hanno cercato di imporre una propria linea nel tentativo di ottenere il massimo – in termini energetici e di proiezione sul continente africano – dallo sgretolamento della Libia che avevamo conosciuto fino all’uccisione del Colonnello Gheddafi nell’ottobre del 2011.

Un “gioco sporco” che sta riuscendo bene soprattutto alla Francia di Emmanuel Macron, ormai da tempo apertamente schierata al fianco del Generale Haftar, e in cui invece si è letteralmente impantanata l’Italia, complice la necessità del nostro governo di andare alla costante ricerca non di uno ma di due compromessi indispensabili per tutelare gli interessi che lo tengono legato alle sorti della Libia: da un lato gli investimenti della nostra compagnia di bandiera ENI, dall’altro la necessità di fare di tutto – compresa la distribuzione di ingenti “aiuti economici” a fazioni, tribù e inevitabilmente a milizie armate – pur di porre un argine ai flussi di migranti che provengono dall’Africa Sub-Sahariana.

Parigi, appoggiata da Emirati ed Egitto, preme per nuove elezioni in Libia entro la fine dell’anno, convinta che in un modo o nell’altro il voto finirà per legittimare l’ascesa al potere di Haftar. La notizia della candidatura dell’ex ambasciatore libico negli Emirati Arabi Aref Al Nayed, caldeggiata per il momento solo ufficiosamente dall’Eliseo, va letta in questa direzione.

L’Italia, dopo essere rimasta per troppo tempo fedele alla linea tracciata dalle Nazioni Unite supportando inutilmente Al Serraj, sta adesso provando a cambiare passo, complice la stretta attorno all’esecutivo del premier del GNA, la cui sopravvivenza è minacciata seriamente da quanto sta avvenendo in questi giorni. La sponda offerta da Donald Trump, che nell’incontro di fine luglio con il premier Giuseppe Conte ha “assegnato” a Roma il compito di organizzare in Italia – a novembre a Sciacca – una nuova conferenza internazionale sulla Libia in cui dovrebbero essere presente anche il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il segretario di Stato americano Mike Pompeo, potrebbe essere l’ultima chance per permettere all’Italia di entrare nel giro dei Paesi che decideranno le sorti della Libia che verrà. È una carta che però il governo italiano deve giocare in fretta e in modo deciso, mettendo definitivamente da parte gli indugi. Forte della titolarità di questa conferenza, Roma potrebbe quantomeno trattare sullo stesso piano con la Francia e con il fronte sempre più vasto a sostegno di Haftar, al cui ingresso a Tripoli (con o senza carri armati) tra i tripolini sarebbero davvero in pochi a opporsi. Il non aver capito in questi anni in che direzione soffia il vento nella capitale libica è il primo errore commesso dalla nostra diplomazia. Un errore in cui non si può più perseverare, soprattutto ora che Tripoli potrebbe nuovamente cambiare padrone.