Le sfide internazionali di Modi

Il primo ministro uscente Narendra Modi ha ottenuto una vittoria netta alle diciassettesime elezioni generali in India. Il leader nazionalista indù si conferma dunque primo ministro per altri 5 anni. Modi sembra aver ottenuto una vittoria tale da consentirgli di aumentare i seggi in Parlamento, meglio del 2014. Il primo ministro ha immediatamente dichiarato la vittoria, festeggiata dai suoi sostenitori con lanci di petali di rose, quando lo spoglio non era ancora terminato. Il partito conservatore Bharatyia Janata Party (Bjp) con la Nationa Democratic Alliance (Nda) avrebbe guadagnato quasi 345 seggi e la maggioranza assoluta nella Lok Sabhha, la camera bassa del Parlamento indiano. Le elezioni nella democrazia più grande del mondo si sono tenute in fasi diverse e sono andate avanti dall’11 al 19 maggio. Modi partiva da una posizione di svantaggio, visto il risultato deludente alle elezioni locali di dicembre 2018. Rahul Gandhi, leader del principale partito di opposizione Congress, ha dichiarato in conferenza stampa: «Il popolo indiano ha deciso che Modi sarà il prossimo primo ministro». La campagna elettorale è stata un confronto tra Modi e Rahul Gandhi piuttosto che tra i loro partiti. Il Congress aveva ottenuto buoni risultati alle elezioni negli Stati Rajasthan, Madhya, Pradesh e Chhattisgarh, ma questi successi non si sarebbero tradotti in un vantaggio alle elezioni di maggio 2019. Il presidente americano Trump si è presto congratulato con il primo ministro indiano per la “grande vittoria”. Le sfide internazionali che attendono il prossimo governo:

Senza suscitare l’interesse che avrebbe meritato, Jawad Zarif era arrivato a Delhi nel pieno della più divisiva campagna della storia elettorale indiana. In dieci settimane di comizi e in sei di voto effettivo (per tradizione, non c’è un solo giorno elettorale ma si vota in sette appuntamenti diversi per calendario e geografia), gli indiani avevano messo in discussione anche il Mahatma Gandhi. L’obiettivo della visita del ministro degli Esteri iraniano era conquistare la solidarietà indiana nel confronto con gli Stati Uniti: nonostante le sanzioni, garantiva Teheran, il petrolio sarebbe arrivato secondo i termini stabiliti da anni e vantaggiosi per entrambi.

Grazie anche ai convergenti interessi in Afghanistan, opposti a quelli pakistani, le relazioni fra i due Paesi sono sempre state più che buone. Il petrolio iraniano era uno dei principali motori dell’economia indiana. Ma a Zarif, la ministra degli Esteri indiana Sushma Swaraj ha risposto che la decisione se continuare a ricevere il petrolio o adeguarsi alle sanzioni americane sarebbe stata presa dal nuovo governo che uscirà dalle elezioni. La versione diplomatica di un no.

L’India è il terzo più grande acquirente di petrolio al mondo; importa l’85 % di ciò che consuma, oltre al 34 del gas naturale. Nel 2016 ha importato dall’Iran 215 milioni di tonnellate di greggio. I sauditi, arrivati a Delhi prima di Zarif, avevano già garantito insieme agli Emirati di sostituire il petrolio iraniano con il loro. Ma non è questa la ragione della risposta evasiva della ministra indiana. La sua era una scelta di campo che avrebbe ribadito qualsiasi partito, alleanza e leader al governo dopo le elezioni.

Alcune emergenze internazionali, estremamente pressanti, attendono l’India distratta per così tanto tempo dal voto. Mai come questa volta la questione sicurezza è stata al centro dello scontro elettorale. Soprattutto Narendra Modi, il premier e leader del Bjp, ne ha fatto un uso estensivo: quando si è accorto che il risultato economico dei suoi primi cinque anni di governo non era smagliante come aveva promesso, il primo ministro ha puntato sulla sicurezza. L’attentato terroristico sponsorizzato dal Pakistan in Kashmir, e gli attacchi ai cristiani nello Sri Lanka sono stati di grande aiuto nello spostare l’attenzione e il consenso degli indiani verso la politica muscolosa di Narendra Modi e del Bjp, il suo partito nazional-religioso.

La sicurezza intesa da Modi e dai candidati del Bjp enfatizzava soprattutto la “minaccia islamica” in Kashmir e della comunità musulmana indiana. L’idea elettorale venduta con un certo successo era che la fede, la cultura e la stessa vita dell’80% hindu della popolazione, fosse minacciata dal 14% di religione islamica del paese.

A parte questo, la sicurezza geopolitica – diplomatica e militare – economica, energetica e anche dal terrorismo è un’esigenza reale: la priorità che dovrà affrontare il nuovo governo, più importante delle riforme economiche. La crisi mediorientale fra Iran, regni, emirati del Golfo e Stati Uniti, è una minaccia reale al flusso energetico del paese. L’Iran è il suo terzo fornitore di greggio (13% del fabbisogno). I primi due sono l’Arabia Saudita e l’Iraq (18% ciascuno). Dunque, il 48% del petrolio necessario viene da una zona potenzialmente di guerra. Basta bloccare lo stretto di Hormuz e nei porti indiani non arriva una goccia di quel greggio.

Che due elefanti facciano l’amore o la guerra, il prato soffre comunque, dicono gli indiani. Quale sia lo stato dei rapporti fra Stati Uniti e Cina, che collaborino o siano alle soglie della guerra fredda del XXI secolo, alla fine l’India ha quasi sempre un costo da pagare. Il conflitto commerciale fra i due grandi pachidermi mondiali è lontano dal diventare armato ma è ugualmente pericoloso per Delhi.

Anche l’India è nel mirino di Donald Trump. Durante l’ultimo incontro bilaterale, il segretario al Commercio Wilbur Ross aveva accusato l’India di applicare tariffe “eccessivamente restrittive” alle importazioni americane. Come risultato – sottolineava – l’India è solo tredicesima fra i paesi destinatari dell’export Usa. Il problema, dal quale apparentemente non c’è uscita, è che dopo la Cina, gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale indiano; e che la Cina possiede dell’India il più alto deficit commerciale.

Se dunque Pechino è responsabile del disavanzo commerciale di Delhi, Washington è la garanzia del surplus che rende sopportabile il disavanzo con la Cina. Lo scontro fra i due elefanti commerciali, in mezzo al quale l’India è il prato che comunque subirà dei danni, giustifica la vaghezza della risposta all’iraniano Zarif. Per quanto anche gli indiani non abbiano alcuna fiducia in Donald Trump, l’America è troppo essenziale per una moderata scelta di campo a suo favore.

Da Jawaharlal Nehru in poi, l‘India è sempre stata gelosa del suo non avere alleati. Al Movimento dei Non Allineati, del quale è stato un fondatore, il paese ha continuato ad aderire anche quando il mutare dei tempi lo aveva reso irrilevante. Durante la Guerra fredda l’India era stata più vicina all’Unione Sovietica, poi agli Stati Uniti, senza però arrivare a sviluppare un’alleanza formale con la prima né con i secondi.

Poi nel 2014 Narendra Modi è andato al potere e molti esperti indiani sostengono che grazie a lui le cose sono cambiate: più spese militari, più assertività, una postura diversa verso la Cina, maggiore attenzione ai rapporti con i paesi più piccoli dell’Asia meridionale, legami sempre più stretti col Giappone.

In realtà non è Modi ma la Cina ad aver spinto l’India a cambiare atteggiamento sulla geopolitica che la circonda. Anche Raul Gandhi del Congress o qualsiasi altro leader politico, andando al potere, avrebbe dovuto constatare l’aggressivo espansionismo cinese in Asia. Nehru e sua figlia Indira Gandhi erano convinti che l’India fosse una potenza continentale, non oceanica, nonostante 7.500 chilometri di coste. Fino al 1958 la marina indiana era comandata da ufficiali inglesi, e solo negli anni Novanta, 40 anni dopo l’indipendenza, è stata creata una scuola di guerra per la Marina.

L’alleanza sempre più stretta con il Pakistan, con il chiaro obiettivo di contenere l’India; la crescente presenza militare nell’Oceano Indiano; la gigantesca impresa commerciale dai connotati geopolitici chiamata “Via della Seta”, costringono Delhi ad adeguarsi alla minaccia cinese. Giappone, Vietnam e Corea del Nord, con le stesse preoccupazioni degli indiani, sono partner naturali. Tuttavia, con o senza Donald Trump le relazioni con gli Stati Uniti sono essenziali. “Molto presto dovremo prendere una decisione sul dibattito 5G”, scrive il Times of India. La tecnologia di quinta generazione “ha il potenziale per trasformare la knowledge economy indiana ma anche le strutture della sua Difesa. La nostra decisione di andare con Huawei e la Cina o con i network occidentali determinerà per molto tempo la nostra politica estera”.

Ugo Tramballi, pubblicato su ISPI 

 , Reuters