Dopo l’approvazione del decreto sulle missioni militari italiane all’estero da parte del parlamento italiano avvenuta il 17 gennaio 2018, la missione militare in Niger è stata ufficialmente resa pubblica indicando obiettivi, finalità, numero di mezzi e uomini e il costo dell’operazione, che ammonta a circa 50 milioni di euro. Con il cambio di governo a giugno, il piano adesso rischia però di impantanarsi.
LA MISSIONE
L’autorizzazione parlamentare concessa da una larga maggioranza politica che prevede la presenza italiana in Niger, dovrà fornire assistenza al comparto delle forze di sicurezza nigerine (Forze Armate, Gendarmeria Nazionale, Guardia Nazionale e Forze Speciali) sviluppandone e incrementandone le capacità operative volte a contrastare efficacemente il fenomeno dei traffici illegali di persone, di armi e sostanze stupefacenti e di tutto ciò che può costituire una minaccia alla sicurezza nazionale e internazionale.
Il nostro contingente avrà, inoltre, altri due compiti da svolgere nella Repubblica del Niger quali l’attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio, da attuare congiuntamente con le forze locali, e anche lo sviluppo delle capacità aeree dell’aeronautica nigerina.
È altresì chiaro che l’Italia punta a operare nell’ottica di uno sforzo congiunto con gli alleati europei e americani, impegnati in attività di counterterrorism non solo in Niger ma in tutta l’Africa Sub-Sahariana al fianco dei Paesi del G5 Sahel – Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. Per il raggiungimento di questi importanti task, i vertici militari hanno programmato di impiegare nell’arco del 2018, un numero di effettivi che non superi le 470 unità.
Saranno presenti un team di addestratori, un team medico, un team per ricognizione, comando e controllo, un’unità per raccolta informativa, sorveglianza e ricognizione, una di force protection e una squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN).
I mezzi messi a disposizione per tale intervento, che ancora non ha un nome ufficiale (alcune testate giornalistiche avevano paventato il nome in codice di “Deserto Rosso” ma non c’è stata nessuna conferma ufficiale) ammonterebbero a 130 veicoli e a due mezzi aerei di stanza all’aeroporto sito nei sobborghi della capitale Niamey.
L’OBIETTIVO
La decisione di schierare un nostro contingente in un’area storicamente ritenuta di scarso interesse per l’Italia, è stata spiegata dall’ex presidente del consiglio Paolo Gentiloni dopo l’approvazione della Camera. Nel gennaio scorso, attraverso un tweet, l’allora capo del governo italiano aveva evidenziato come l’invio di truppe in Niger rientrasse in un progetto geopolitico di più ampio respiro che mira a difendere un interesse nazionale ben preciso, cioè bloccare tutte quelle attività criminali messe in piedi da gruppi oramai ben strutturati, in pieno controllo del territorio, che a seconda del business indossano i panni dei trafficanti di esseri umani, armi e sostanze stupefacenti oppure quelli dei terroristi jihadisti.
In particolare lo scopo ultimo, a cui puntava il governo Gentiloni – e che ora dovrà essere necessariamente rivisto con l’entrata in carica a inizio giugno del governo M5S-Lega guidato dal premier Conte – sarebbe il blocco dei traffici illeciti all’interno dei confini nigerini evitando che si diffondano indisturbati, orientandosi verso la polveriera Libia – ancora nel pieno della “somalizzazione” territoriale – e da lì in Italia. Non vi è dubbio però che per perseguire una strategia di tale importanza è necessario che tutti gli aspetti dell’operazione siano ben chiari e al momento ancora qualche punto rimane “oscuro”.
I DUBBI SULLA MISSIONE
In primis, molti analisti lamentano una certa opacità circa la dislocazione del contingente italiano. Se in un primo momento si credeva che le nostre forze militari sarebbero state posizionate nei pressi del “fortino” francese di Madama in prossimità del confine libico-nigerino, recentemente alcune testate giornalistiche nazionali hanno evidenziato che il quartier generale italiano si dovrebbe, invece, approntare all’interno della base aerea della capitale Niamey dove sono stanziate le forze statunitensi e da lì svolgere l’attività addestrativa delle forze nigerine.
Se la sede operativa fosse circoscritta alla capitale, la portata strategica della missione si ridimensionerebbe pur rimanendo in linea con l’obiettivo no combat della missione. Proprio la scelta no combat avrebbe creato un certo attrito con i vicini francesi, sempre più desiderosi di alleggerire la propria ingente presenza di 4.000 militari nell’Africa Sub-sahariana e quindi indispettiti dalla mancata volontà italiana di agire in prima linea a fianco delle truppe nigerine.
Questo malcontento transalpino potrebbe anche essere la causa delle recenti reazioni negative da parte di fonti ritenute vicino al governo nigerino – rilasciate in esclusiva alla radio francese RFI – che contrari all’imminente arrivo dei nostri militari, avrebbero accusato l’Italia di muoversi in maniera unilaterale senza che il Niger avesse avanzato ufficiale richiesta d’intervento sul proprio territorio.
Tali rimostranze sembrerebbero tuttavia poggiare su basi poco solide in quanto l’Italia negli ultimi mesi del governo Gentiloni ha puntato con decisione al rafforzamento dei propri rapporti con Niamey, ad esempio dando il via a gennaio per istituire la prima e unica rappresentanza diplomatica nell’Africa Sub-sahariana proprio in Niger preceduta da un ristretto gruppo di militari che, recatosi nel Paese africano alla fine del 2017, aveva effettuato un positivo sopralluogo preliminare finalizzato al successivo insediamento del contingente.
Il dialogo tra l’Italia e il Niger, per definire i dettagli conclusivi circa l’operazione, è poi proseguito nei mesi successivi, almeno fino alle elezioni de marzo scorso. Al netto di tutto ciò, e alla luce di tali considerazioni, la tesi per cui l’Italia si appresterebbe a intervenire militarmente in Niger solo per favorire la linea politica francese è oggigiorno quantomeno più debole.
Giulio Giomi
Articolo pubblicato sul numero 1 di Babilon
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