“Libia, la posta in gioco” è il titolo dell’incontro che si è svolto il 12 aprile all’università Unint di Roma. Erano presenti l’On. Marco Minniti, il prof. Alfredo Mantici, il Preside della facoltà di Scienze Politiche prof. Ciro Sbailò e il presidente dell’Unint prof. Giovanni Bisogni. Un incontro che si inserisce nella serie di convegni del corso Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale della facoltà di Scienza politiche, di cui il prof. Sbailò è preside.

Il prof. Mantici, già analista del SISDe ed esperto di analisi e geopolitica, ha condotto l’incontro tra analisi della situazione libica e domande poste all’ospite d’eccezione: l’On. Marco Minniti.

I lavori sono stati avviati dal preside Sbailò che ha fotografato con perizia la situazione libica attuale e nella dicotomia dei due governi concorrenti. Il primo riconosciuto dalla comunità internazionale ma debole, quello di Serraj. L’altro forte ma meno saldo dal punto di vista del sostegno internazionale, quello del generale Haftar.

La prima conclusione è stata la constatazione che la Libia gioca una ruolo cruciale nel Mediterraneo dal punto di vista geopolitico. La situazione è molto delicata e la visione del problema è globale. Non solo dal punto della sicurezza e non solo sotto l’aspetto della stabilità. Come lo stesso on. Minniti ha messo nero su bianco nel suo testo “Sicurezza e Libertà – terrorismo e immigrazione: contro la fabbrica della paura”.

Per il prof. Mantici, che ha introdotto l’incontro, va definita la posta in gioco. È economica? È Politica? Si tratta di esportare una democrazia di stampo occidentale? Si tratta di rimodellare quella società sulla falsa riga della nostra? La risposta non è certo facile. Sicuramente, spiega Mantici, in Libia si stanno scontando errori gravissimi fatti nel passato coloniale e in quello post coloniale. È il caso di reinventare oggi una Libia unificata? Oppure è il caso di considerare che sono 3 regioni diverse? Oppure si dovrebbe forse prendere atto che i libici sono diversi? Né meglio né peggio di noi, solo diversi. E proprio perché diversi non adatti alle nostre regole costituzionali?

Minniti ha provato a dare una lettura della situazione spiegando agli studenti gli scenari possibili.

Fondamentale, secondo l’ex ministro, avere una visione perché non si possono rincorrere gli eventi. Senza una visione e una chiara politica estera il tasso di errore è altissimo. Tuttavia, questo sembrerebbe essere stato l’errore della comunità internazionale. Un errore commesso spesso, anche a ridosso degli eventi del 2011. Secondo Minniti, l’intervento del 2011 è avvenuto in un Paese che viveva discretamente bene e ha avuto l’effetto di destabilizzarlo. Ma soprattutto è stato un intervento realizzato senza avere la minima idea di cosa sarebbe venuto dopo.

Da quel momento si è instaurata un’instabilità di tipo strutturale. E se quell’area era già difficile da governare per un dittatore, dopo il collasso delle istituzioni non poteva che andare peggio.

In tale contesto, Haftar era già allora uno dei protagonisti. Collega di Gheddafi, con il quale partecipò al colpo di Stato, diventò in seguito uno dei generali più importanti. Venne incaricato di condurre operazioni militari nel sud, verso il Ciad. Scoppiò una guerra. Le truppe libiche, un gigante militare, vennero sconfitte da un nano. Per sottrarsi alla giustizia di Gheddafi Haftar scappò negli Usa e ci restò per oltre 15 anni. Si stabilì “casualmente” vicino Langly, dove c’è la sede CIA. Dopo l’intervento militare, Haftar tornò e molti pensarono ad una longa manus degli americani. Poi tutto si rivelò più complesso: in Libia nulla è come appare.

L’esponente Dem ha indicato 3 possibili strade

La prima. Un percorso che garantisca un minimo di governabilità perché gli attori sul terreno non sono solo due: Serraj e Haftar. Misurata, ad esempio, conta molto. È una piccola Sparta, una città che ha gestito l’autonomia dopo il collasso dello stato di Gheddafi e ha costituito un notevole potere di natura militare. Le milizie libiche si sono rivelate fondamentali per la comunità internazionale. L’Isis prese il controllo della nuova capitale messa in piedi da Gheddafi: Sirte. Quando ciò è accaduto, la comunità internazionale non ha potuto tollerarlo e si è rivolta a Misurata. Con un costo di 5000 giovani vite le milizie hanno liberano Sirte. Misurata è dunque un elemento fondamentale nello scacchiere libico.

Il Fezzan, nel sud della Libia è un’area cruciale perché rappresenta il confine meridionale della intera Europa. Da lì passano il traffico di esseri umani e i terroristi. È una realtà composta da tre tribù: Tuareg, Tebù e Soleyman. Non esiste altra tecnologia che serva a garantire il confine se non quelle tribù, che erano in stato di guerra permanente tra di loro. In Italia nel 2017, però, tali tribù firmano la pace, detta “Pace di Roma”. Un tassello fondamentale per la stabilità della Libia. La prima via quindi è l’instabilità governata, frutto di un lavoro paziente.

La seconda strada è la divisione del territorio per omogeneità tribale, molto pericolosa perché le ricchezze dei giacimenti energetici non sono distribuite in maniera equa sul territorio. Quindi si avrebbero parti più forti e parti più deboli e la conseguenza sarebbe il disequilibrio. La parte debole tenderebbe infatti a conquistare le risorse mancanti. L’instabilità nell’aera non conviene, soprattutto all’Italia. Gran parte dei migranti passano dalla Libia, anche se non sono libici; Se scoppiasse una guerra civile, inizierebbero a migrare anche i libici e tutti a quel punto sarebbero rifugiati perché in fuga da una guerra. Altra questione la sicurezza internazionale: il sedicente Stato Islamico non c’è più sul territorio. Ha perso Sirte e forse per questo motivo sono ancora più pericolosi e probabili gli attentati terroristici. Almeno 30.000 combattenti stranieri hanno combattuto con l’Isis in questi anni, dalla Siria e dall’Iraq, e stanno tornado a casa. La via più breve per loro è il confine meridionale della Libia.

La terza strada è la soluzione militare, a cui Minniti non crede.

Per l’ex ministro dell’Interno, dunque, l’unica vera strada è la pazienza e provare a governare l’instabilità. Anche se Haftar arrivasse a Tripoli, non potrebbe governare la Libia e si avrebbe una situazione di conflitto costante. Secondo Minniti, Haftar ha due ipotesi in mente:

– First best: fare come Gheddafi, ma le condizioni sono mutate. I Fratelli musulmani si opporrebbero, finanziati certamente dal Qatar. Uno scenario Impensabile. Haftar non è Gheddafi, né per capacità, né per età.

– Second best: essere l’uomo fondamentale della Libia, senza il quale non si muove una foglia. Uomo forte ma senza la responsabilità di tenere unita tutta la Libia. Non è un caso che Haftar abbia annunciato la campagna su Tripoli lo stesso giorno in cui l’inviato Onu Salamè era arrivato in Libia. Dalla serie: “se pensate di non parlare con me per sistemare la Libia, fate un grosso errore”.

In Libia, ha proseguito l’esponente Pd, è in atto un confronto interno al mondo arabo. Si confrontano la divisione del mondo sunnita, che si basa su 5 paesi: Egitto, Emirati arabi, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Tre di questi hanno una visione, due ne hanno un’alta. Emirati, Egitto e Arabia Saudita sono presenti in Libia e stanno con Haftar. Turchia e Qatar stanno dalla parte di Misurata, la città stato che sostiene l’impegno per proteggere Tripoli. La Libia attualmente è un luogo di confronto mondiale. «L’Italia deve essere intelligente, ma non può fare Hulk, come un elefante in cristalleria», ha scherzato il Ministro. «Deve fare come l’Uomo ragno: tessere una tela per tenere assieme cose che insieme ci non stanno, ma devono starci comunque». «Il fine giustifica i mezzi, perché i mezzi e i fini vanno tenuti assieme», ha commentato ancora Minniti.

La partita è dunque aperta. È evidente che l’Italia e in generale l’Europa e l’Occidente mancano di strategia sul lungo periodo. Ma il nostro Paese può ancora giocare un ruolo fondamentale per quell’area.