Nelle settimane “calde” di Tripoli riproponiamo un’intervista al presidente della Camera di Commercio Italo-Libica Gian Franco Damiano, pubblicata sul numero 1 di Babilon.

Al primo piano del civico 192 di Viale Regina Margherita l’atmosfera è spettrale. Prima della rivoluzione del 2011 la sede della Camera di Commercio Italo-Libica era un porto sicuro per centinaia di piccole e medie imprese che facevano degli investimenti e delle esportazioni nel regime di Gheddafi il loro core business. A sette anni di distanza di quel mondo non c’è più traccia e le colpe non sono solo della guerra civile ma anche dell’Italia, spiega il presidente Gian Franco Damiano.

Di quanto è calata la presenza delle nostre imprese in Libia dal 2011 a oggi?

Rispetto ai tempi di Gheddafi la nostra presenza si è ridotta al 5%. Ci sono circa 10-15 aziende attive nell’area di Tripoli nei settori dell’impiantistica, dell’alimentare, dell’energetico, della manutenzione e delle costruzioni. Nel frattempo tante altre piccole e medie imprese sono invece saltate per i crediti che vantavano e che non hanno potuto recuperare, parliamo di circa 600 milioni di euro. Con loro è andato perso anche un enorme patrimonio di relazioni che eravamo riusciti a costruire nel tempo. Non tutto, però, si è fermato. C’è chi non hai mai smesso di investire. La Libia è l’unico Paese dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, ndr) a poter andare oltre i limiti di produzione di greggio stabiliti. Con la rimessa in funzione di alcuni suoi giacimenti e pozzi le nostre imprese potranno riprendere a lavorare come nel passato.

Cosa rischia un imprenditore che oggi decide di fare affari in Libia?

Le condizioni di gestione della sicurezza sono cambiate: è consigliabile che gli imprenditori non escano di sera o di notte oppure muoversi da soli in aree scoperte. La sicurezza dipende dalle relazioni e dai rapporti di fiducia che hanno instaurato con i partner economici libici. Può succedere che la Farnesina o la nostra ambasciata a Tripoli non siano avvertite degli spostamenti delle imprese. Il risultato è che molti nostri connazionali potrebbero correre il rischio di essere coinvolti in eventi negativi. Oggi osserviamo un nuovo aspetto della crisi libica: per la prima volta dall’inizio della guerra diverse famiglie stanno iniziando a emigrare. Rischiamo che la fuga di una porzione della media borghesia libica lascia il Paese, privi il paese di un significativa forza per la ricostruzione del Paese. Sette anni di incertezze minano le speranze.

Riavvolgendo il nastro della rivoluzione libica, quale ritiene siano stati i principali errori commessi dall’Italia?

Lasciamo da parte la decisione di aver partecipato alla missione militare a guida francese contro Gheddafi. Dopo quella scelta l’errore principale commesso è stato quello di non aver sostenuto la candidatura di Romano Prodi per il ruolo di mediatore della crisi libica. Sono stati i libici a chiedere che Prodi intervenisse. Noi invece non abbiamo saputo né soddisfare e né interpretare le loro richieste, per problemi di leadership interna al nostro Paese. Su tutto ciò pesa la scelta di affiancarci solo con il governo di Fayez Al Serraj e ci ha proiettato esclusivamente su Tripoli. Ci siamo distanziati da Bengasi e dalla Cirenaica, e questa è una cosa che non possiamo più permetterci. Il nostro impegno sulla Libia è controverso ma soprattutto pesa la nostra incapacità di non aver mai attivato il coinvolgimento serio dell’UE.

Come valuta l’operato del ministro degli Interni uscente Marco Minniti?

Tempo fa Minniti era stato tra i primi a lanciare l’allarme dicendo che la Libia rischiava di diventare una «nuova Somalia sotto casa». Aveva ragione. Il problema, però, è che da allora non si è fatto nulla. Ci siamo fermati alla formazione delle forze di sicurezza, della guardia costiera libica e alla fornitura di navi e di sistemi per il controllo delle coste. Ma che resa hanno avuto i soldi inviati alle milizie di Sabratha o alle tribù del sud che avrebbero dovuto contribuire a fermare i flussi migratori? Esiste la possibilità che siano andati nelle tasche di milizie legate a gruppi terroristici? Se scivoliamo su diverse bucce di banana, è difficile avere una credibilità in questo Paese.

È fiducioso in vista delle elezioni politiche in programma entro fine anno?

Sulla scena si affacciano Mahmud Gibril (primo ministro ad interim nel 2011, ndr), il figlio di Gheddafi Seif al-Islam, il generale Haftar, che pare stia preparando un posto per suo figlio Khaled, i Fratelli Musulmani ed altre forze in via di aggregazione Speriamo in altri personaggi nuovi che possano ragionare in termini di “Paese” e non di potentati locali.

Un auspicio per i futuri rapporti tra Italia e Libia?

L’auspicio è che l’Italia sia molto più presente in Libia, ma non tanto a livello militare quanto a livello economico e di relazioni. Non possiamo pensare di continuare a mandare militari in Libia, o di allargare la nostra presenza ad altri Paesi della regione come il Niger. La soluzione è avere una strategia di lunga durata che porti si stabilità politica, evitando inciuci per interessi economici di alcuni, ma soprattutto nuove opportunità di lavoro per i libici, valorizzando non solo la risorsa petrolifera, per arrivare ad riposizionamento intelligente del nostro Paese. Finora abbiamo sempre lavorato in emergenza, talvolta con visioni parziali e troppo spesso improvvisando soluzioni. La Libia di oggi è una sconfitta per la comunità internazionale e per l’Unione Europea, ma lo è soprattutto per l’Italia.