di Antonio Passarelli

I World Development Indicators della Banca Mondiale relativi alla Repubblica Federale della Nigeria certificano come con i suoi circa 180 milioni di abitanti la federazione di 36 stati dell’Africa Occidentale sia lo Stato più popoloso del continente e – a partire dal 2014, a seguito della revisione del metodo di calcolo del PIL – ormai anche la prima economia superando il Sudafrica. Una terra ricca di materie prime e realtà tra le più privilegiate in un continente, però, spesso vittima della “maledizione delle risorse”.

Le ricchezze del Paese: petrolio, gas e minerali

La Banca Mondiale annovera la Nigeria tra i Paesi a reddito medio-basso. La rapida industrializzazione e l’urbanizzazione realizzata negli ultimi decenni è stata garantita e finanziata principalmente dalle entrate petrolifere che rappresentano oltre i 2/3 delle entrate dello Stato e dall’afflusso di investimenti diretti esteri. Anche nel 2015 – malgrado le note difficoltà dovute ai sabotaggi agli impianti petroliferi che dall’inizio dell’anno hanno causato un calo della produzione di 300.000 bpd (barrels per day) nel sud, e la minaccia intermittente di Boko Haram a nord – secondo l’ultima edizione della Statistical Review of World Energy di British Petroleum (BP) la Nigeria si è confermata tra i maggiori produttori di petrolio al mondo, al tredicesimo posto con 2.321.000 bpd.

La scoperta dell’oro nero nel 1956 da parte di Shell e della stessa BP nello stato di Bayelsa – per di più in maggioranza di facile raffinazione e ottima qualità, noto come Bonny Light e molto “apprezzato” dalle raffinerie occidentali – ha reso il Delta del Niger un’area strategica a livello globale e la città di Port Harcourt il principale hub petrolifero del Paese. Mentre solo recentemente è stato annunciato l’avvio dell’estrazione di petrolio anche al largo della capitale economica nigeriana Lagos, megalopoli da oltre 16 milioni di abitanti e settima città al mondo per velocità di crescita demografica.

Di rilievo è anche l’estrazione di gas naturale, di cui la Nigeria possiede i più ricchi giacimenti del continente. Nel 2015 – sempre secondo i dati dell’annuario BP – il Paese si colloca in diciassettesima posizione a livello globale, con una produzione pari a 50 miliardi di metri cubi. A petrolio e gas si aggiungono tutti gli altri minerali come ad esempio stagno, carbone, ferro, zinco, piombo, oro e uranio che contribuiscono all’economia e alla ricchezza nigeriana. Senza dimenticare che sono molte altre le risorse minerarie totalmente non sfruttate.

La Nigeria gode inoltre di grandi disponibilità di foreste che negli ultimi quindici anni però – sempre secondo i dati della Banca Mondiale – si sono quasi dimezzate passando dagli oltre 130.00 chilometri quadrati del 2000 ai circa 70.000 del 2015. Contestualmente la popolazione è cresciuta al ritmo del 2,5% annuo e quella urbana di oltre il 4%, arrivando a contare oggi per quasi la metà sul totale nazionale. In prospettiva le stime delle Nazioni Unite prevedono che la Nigeria continuerà a sperimentare una crescita demografica elevata arrivando a contare 440 milioni di abitanti entro il 2050.

ECOWAS e i rapporti con l’Europa

A livello politico e commerciale, nella regione dell’Africa Occidentale insieme al Ghana la Nigeria rappresenta anche l’epicentro dell’Economic Community of West African States (ECOWAS), con sede proprio nella capitale del Paese Abuja. L’ECOWAS riunisce 15 Paesi della regione (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo) e oltre 340 milioni di abitanti nella promozione di un graduale processo di integrazione economica nella regione. Ma a oltre quarant’anni dalla sua nascita, con il Trattato firmato a Lagos nel 1975 in risposta all’esigenza di ridurre la frammentazione economica regionale, solo recentemente il processo ha ripreso slancio anche grazie al ruolo dell’Unione Europea che in Africa sostiene gli esperimenti di integrazione regionale. I primi frutti di questa strategia si iniziano a vedere, come dimostra l’approvazione nel luglio 2014 dell’Economic Partnership Agreement (EPA) con l’UE dopo un decennio di negoziati e ad oggi ancora in corso di ratifica.

La scoperta dell’oro nero nel 1956 da parte di Shell e della stessa BP nello stato di Bayelsa ha reso il Delta del Niger un’area strategica a livello globale e la città di Port Harcourt il principale hub petrolifero del Paese

L’accordo mira alla creazione di un’area di libero scambio a favore dell’apertura dei mercati dei Paesi ECOWAS ai prodotti europei da attuare per buona parte in un periodo di transizione della durata di vent’anni. Per i Paesi membri dell’organizzazione questa sfida rappresenta un’occasione per favorire l’integrazione. In quest’ottica va interpretata l’adozione dal primo gennaio 2015 della Common External Tariff (CET) tra gli Stati membri che prevede l’applicazione di dazi doganali comuni ai prodotti importati nella regione sulla base di cinque aliquote: 0% per beni come macchinari/beni capitali o medicinali di base non prodotti localmente; 5% su materie prime; 10% per beni intermedi; 20% su prodotti finiti; 35% su quelli che sono stati definiti “beni specifici per lo sviluppo economico” ovvero quelle merci la cui produzione interna viene protetta dal governo.

I limiti imposti alle importazioni

Le entrate derivanti dai dazi sulle importazioni costituiscono una delle maggiori entrate per lo Stato nigeriano, seconde solo agli introiti generati dall’esportazione di petrolio e gas naturale. Le autorità locali, appellandosi alla difesa delle produzioni locali, dell’industrializzazione, della diversificazione economica interna e dell’autosufficienza alimentare, adottano anche barriere non tariffarie che vanno dalle quote alla completa proibizione dell’importazione per alcuni prodotti. Le importazioni sono rese complicate anche da altri fattori come gli elevati costi dei trasporti e dei servizi nei porti, le carenze infrastrutturali, le procedure burocratiche lente e complesse, la corruzione diffusa e gli evidenti problemi di sicurezza che nel momento storico attuale – vista la volatilità e la velocità delle dinamiche sociali e politiche – riescono a scoraggiare anche la ricerca di profitti.

Il risultato complessivo di questa situazione è che nell’Enabling Trade Index 2014, redatto dal World Economic Forum, la Nigeria appare tra i Paesi meno aperti al commercio internazionale, relegata in 124esima posizione su 138 nazioni analizzate.

Gli affari con l’Italia

L’Italia è da anni tra i sostenitori della necessità di rafforzare le relazioni con il continente africano. In questo quadro la Nigeria rappresenta un interlocutore imprescindibile e l’azione diplomatica del governo italiano negli ultimi anni in Africa lo ha dimostrato.

Dal suo insediamento nel 2014, l’attività diplomatica del premier Matteo Renzi nel continente africano è stata intensa con missioni in Angola, Mozambico e Congo-Brazaville nell’anno dell’insediamento, in Kenya ed Etiopia lo scorso anno. Mentre nel febbraio del 2016 la terza missione africana di Renzi è partita proprio da Abuja per fare tappa successivamente in Ghana e Senegal. Questa nuova attenzione per l’Africa da parte dell’Italia risponde alla convinzione strategica che per il nostro Paese è di fondamentale importanza rafforzare la cooperazione economica e politica non solo con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, storicamente e culturalmente a noi più vicini, ma anche in quell’Africa Sub-Sahariana ricca di opportunità quanto di contraddizioni.

La visita ufficiale di Renzi è stata l’occasione per rinsaldare le relazioni bilaterali e ha rappresentato non solo la prima visita in assoluto di un premier italiano in Nigeria, ma anche la prima di un capo di governo occidentale dalla nomina a presidente di Muhammadu Buhari, l’ex generale di fede musulmana, candidato dell’All Progressive Congress che ha ottenuto il 54% dei suffragi popolari alle elezioni presidenziali del marzo 2015.

L’Italia ha tutte le carte in regola per essere un partner fondamentale nel rilancio dell’industria nazionale nigeriana, soprattutto attraverso “l’altro Made in Italy” come viene definita la meccanica strumentale nel Rapporto Export 2016/2019 “Re-Act” di SACE. Si tratta di un’eccellenza italiana finora mai troppo esaltata, che però vale ben 80 miliardi di euro di esportazioni, il 5% dei 1.600 miliardi del valore totale. Per rendere l’idea, l’apporto della meccanica italiana è ben superiore a quello della nostra economia, che vale “solo” l’1,5-2% del PIL globale.

La visita ufficiale di Renzi è stata l’occasione per rinsaldare le relazioni bilaterali e ha rappresentato non solo la prima visita in assoluto di un premier italiano in Nigeria, ma anche la prima di un capo di governo occidentale dalla nomina a presidente di Muhammadu Buhari

I settori di interesse sono molteplici non solo nell’ottica dello sviluppo del know-how e dell’industria locale e nell’ammodernamento e ricostruzione delle infrastrutture (idrocarburi, industria estrattiva, meccanizzazione agricola, costruzioni, infrastrutture, servizi portuali e ingegneristica), ma opportunità interessanti esistono per l’esportazione di beni di consumo (arredamento, agroalimentare, abbigliamento) e di lusso (automobili, design e moda). L’obiettivo è intercettare i tanti ricchi nigeriani. Basti pensare che in una città come Lagos – secondo le stime di un recente studio di Altagamma, SACE e ISPI – sono circa 10.000 i milionari che possono permettersi tutte le eccellenze ineguagliabili del “Made in Italy”.

Oltre agli interessi e al ruolo fondamentale dell’ENI, della quale lo stesso Buhari ha esplicitamente ricordato il contributo per lo sviluppo dell’intero comparto nazionale Oil&Gas nel Paese fin dal lontano 1962, le imprese italiane sono state sempre protagoniste in alcuni casi già prima dell’indipendenza con una presenza distribuita su tutto il territorio nazionale e concentrata principalmente nei settori tradizionali dell’economia nigeriana (idrocarburi, costruzioni, infrastrutture, servizi portuali e ingegneristica) e storicamente apprezzate per qualità e serietà.

In realtà, però, l’interscambio bilaterale nell’ultimo biennio è in netto calo, risentendo della crisi del prezzo del petrolio e di tutte le turbolenze a livello locale e globale. I dati dell’ISTAT elaborati dall’ICE evidenziano come il nostro export nel Paese, dopo aver sfiorato quota 1 miliardo di euro nel 2014, lo scorso anno si è attestato a 721 milioni di euro con un vistoso crollo (-25,6%), ben al di sopra del balzo registrato nell’anno precedente (+15,5%) e annullando la crescita graduale registrata negli anni precedenti.

Il trend nel primo trimestre 2016 è ancora peggiore (-36,6%), e anche il già citato Rapporto SACE sottolinea come nell’anno in corso dovrebbe confermarsi una perdita di terreno (-4,4%), mentre nel biennio 2017-19 dovrebbe riprendere la crescita (+2,6), quantificando l’aumento potenziale per il nostro export in 216,6 milioni di euro.

Al netto di questi numeri, l’Italia in Nigeria punta all’affermazione di una strategia e di una visione di sviluppo inclusiva, ponendosi come partner privilegiato e credibile per una realtà che affronta contraddizioni enormi. La sfida, in Nigeria così come in tutto il continente africano, passa dalla capacità di convertire un “boom economico” decennale – garantito dal super ciclo delle commodities e dai prezzi del petrolio lontani anni luce da quelli attuali – in una traiettoria di crescita di lungo termine sostenibile che ne dispieghi appieno il potenziale, dando a queste realtà i mezzi per affrontare un futuro sempre più complesso. Una sfida severa, difficile ma indubbiamente giusta. E l’Italia in questa sfida può, vuole e deve avere un ruolo.