In una prospettiva europea, il dato delle recenti elezioni italiane che fotografa meglio il momento storico in corso è il crollo del Partito Democratico, arenatosi al 18,7%, sotto la soglia psicologica del 20%. Un crollo che, tradotto in numeri, rappresenta una perdita secca di quasi 5 milioni di voti rispetto allo storico 40% toccato dallo stesso PD alle europee del 2014. Un tesoretto di voti in libera uscita che, stando alle analisi dei flussi elettorali, è andato soprattutto al Movimento 5 Stelle ma anche alla Lega, che ha saputo conquistare diversi territori – soprattutto in Emilia – storicamente considerati come roccaforti rosse. Allargando la visuale al resto d’Europa, si può notare come il crollo del PD – che da dieci anni rappresenta il principale soggetto di centrosinistra in Italia – si inserisce in un processo già in corso da qualche anno.

 

Il trend europeo: la sinistra in crisi a vantaggio dei movimenti antisistema

La crisi dei partiti di centrosinistra, eredi della tradizione socialdemocratica europea e uniti sotto le vestigia del Partito Socialista Europeo, è infatti un fenomeno che negli ultimi anni imperversa un po’ in tutto il continente. Non è (solo) una questione di nomi e di leader, ma è soprattutto una questione di istanze e di distaccamento della sinistra da quello che, storicamente, ha rappresentato il proprio elettorato di riferimento.

Quella classe operaia che, ridottasi per via del progresso tecnologico, ha lasciato spazio a una generazione e a una massa di precari sconfitti dalla globalizzazione alla quale la sinistra non è stata in grado, in questi anni, di dare risposte e i cui voti non ha saputo intercettare. La sinistra del post Grande Recessione, infatti, se si è dimostrata assai attiva sul fronte dei diritti civili, a livello di politiche economiche un po’ in tutta Europa ha seguito la linea dettata dalle esigenze di bilancio degli Stati, spesso formando governi di coalizione con i partiti di centrodestra in nome della stabilità, mettendo da parte la ricetta Keynesiana della spesa pubblica per far spazio al rigore e, soprattutto, alla flessibilità nel lavoro. Condivisibile o meno, questo cambiamento di prospettive ha significato un drammatico crollo di consensi, a favore dei movimenti antisistema di varie sfumature e connotazioni che sono proliferati in tutta Europa.

Due esempi emblematici: il Pasok greco e il Partito Socialista francese

Il primo e più clamoroso caso è quello del Pasok greco. Il movimento socialista panellenico che, dopo aver toccato lo storico 43% alle elezioni del 2009, allo scoppio della drammatica crisi nel 2011 – dopo le dimissioni del leader George Papandreou – aveva formato un governo di coalizione con il partito di centrodestra Nuova Democrazia improntato al rigore e all’austerità. Una scelta che, in termini di consenso, ha portato il Pasok al 13,2% alle elezioni del maggio 2012 e al drammatico 4,7% a quelle del 2015: il tutto (o quasi) a vantaggio di Alexis Tsipras e del suo partito di sinistra radicale Syriza. La drammatica parabola del Pasok, eccezionale e sicuramente influenzata dalla drammatica situazione economico-sociale in cui tuttora Atene versa, è però paradigmatica e utile per leggere quanto succede anche in altri Paesi usciti meno lacerati dalla crisi degli ultimi anni.

A cominciare dalla Francia, dove il Partito Socialista è uscito dalle elezioni presidenziali del 2017 con un misero 6,36% che, di fatto, ne ha decretato l’irrilevanza. Un risultato che è arrivato al termine di cinque anni di presidenza Hollande, in cui il partito che fu di Mitterand ha governato da solo attuando però una serie di politiche improntate alla flessibilità – su tutte la riforma del lavoro alla quale molto ha collaborato l’attuale presidente Emmanuel Macron – che ne hanno fatto calare a picco i consensi. Un tesoretto di voti che sono stati ripartiti tra il movimento En Marche! dello stesso Macron, il Front National di Marine Le Pen e, soprattutto, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, pasionario della sinistra radicale francese che al primo turno delle presidenziali del 2017 ha raccolto uno storico 19,58%.

 

Le crisi di SPD e socialisti spagnoli e il cortocircuito olandese

Francia e Grecia rappresentano i casi più eclatanti – e infatti più citati come spauracchio da media e addetti ai lavori – della crisi del centrosinistra europeo, ma non sono affatto due situazioni isolate. In Spagna, ad esempio, il Partito Socialista in meno di dieci anni ha perso quasi la metà dei voti, passando dal 43% di Zapatero del 2008 al 22% del 2015, confermato anche l’anno successivo, e lasciando una prateria elettorale a Podemos. Oppure in Germania, dove l’adesione al governo di coalizione di Angela Merkel ha portato l’SPD, ossia il più antico partito socialdemocratico d’Europa, al minimo storico registrato alle elezioni dello scorso settembre. Risultato che, peraltro, non si è tradotto in un passaggio del partito all’opposizione ma in un nuovo governo di coalizione tra SPD e CDU in nome della stabilità, al cui interno l’SPD svolge un ruolo subalterno. A vantaggio, evidentemente, di una crescita di consensi per la destra antisistema di AFD e per la sinistra radicale della Linke.

Plasticamente esemplificativo del momento che sta vivendo il centrosinistra in Europa è quanto accaduto nel marzo 2017 in occasione delle elezioni olandesi. In quella circostanza, infatti, gran parte dei leader di centrosinistra europei – da Gentiloni e Schultz – si sono affrettati a congratularsi per il risultato dei conservatori di Mark Rutte che, prendendo il 33%, aveva di fatto fermato l’avanzata del Partito per la Libertà di Geert Wilders, noto per le sue posizioni antieuropeiste e contro l’immigrazione. Ignorato dai più, invece, è sembrato essere il risultato dei laburisti, crollati al 5,7% (rispetto al 24,8% del 2012) dopo aver sostenuto il governo di coalizione dello stesso Rutte nei cinque anni precedenti e costretti, dall’alto dei 9 seggi rimasti in parlamento rispetto ai 38 della precedente legislatura, a un’irrilevante opposizione.

Segnali abbastanza indicativi di un cortocircuito del centrosinistra appiattito, di fatto, sulle stesse posizioni del centrodestra – con il quale non lesina a coalizzarsi in nome della responsabilità e della resistenza ai movimenti antisistema, in primis all’interno del Parlamento Europeo – e incapace di trovare una propria reale dimensione alternativa allo stesso. Un centrosinistra che, mappe e dati elettorali alla mano, sembra aver abbandonato le periferie per ritagliarsi un ruolo di elité nei centri delle grandi città. Lasciando così praterie elettorali ai partiti antisistema e trovandosi a dover lottare per la propria sopravvivenza politica.

 

Le due eccezioni rilevanti: Portogallo e Regno Unito

In questo quadro di crisi, due sono le eccezioni rilevanti. La prima è il Regno Unito, dove i laburisti di Jeremy Corbyn – osteggiato dalla stampa e da gran parte del gruppo parlamentare a Westminster sin dalla sua vittoria alle primarie del 2015 – sono tornati a sostenere posizioni tradizionali su temi come la sanità, la scuola pubblica e i diritti dei lavoratori e hanno portato a casa un clamoroso 40% alle elezioni del 2017.

La seconda è il Portogallo, dove i socialisti del premier Antonio Costa – forti del 33% preso alle elezioni del 2015 – hanno rifiutato di coalizzarsi con il centrodestra per formare un governo assieme a due sinistre radicali: il Bloco de Esquerda e la Coalizione Democratica Unitaria, che include schieramenti dichiaratamente contro la NATO e contro l’Euro, come il Partito Comunista Portoghese. Con questa coalizione, Costa ha realizzato una serie di riforme in controtendenza rispetto all’austerità degli anni precedenti, come l’innalzamento del salario minimo, l’abbassamento dell’età pensionabile dei dipendenti pubblici e la riduzione dell’orario di lavoro. I risultati, per ora, sembrano dargli ragione, dal momento che ilPaese ha chiuso il 2017 con un Pil in crescita dal 2,5%, una disoccupazione all’8,9% (livello più basso dal 2008) e un deficit sotto controllo, pari al 2% del Pil.