Riproponiamo su Oltrefrontiera News l’intervista ad Arturo Varvelli, Senior Research Fellow e condirettore del Middle East and North Africa Centre dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) pubblicata sul numero 1 del nostro magazine di geopolitica in italiano e inglese Babilon.

La separazione storica tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan giocherà un ruolo anche nella definizione del futuro assetto istituzionale della Libia?

Le tre regioni hanno storie diverse, talvolta di rivalità aperta. Tuttavia non è affatto chiaro se questa divisione regionale avrà un peso nell’assetto istituzionale futuro. Sono trascorsi sette anni dalla rivolta del 2011, ma paradossalmente non si è ancora discusso di cosa la Libia e i libici vogliono essere, di quale peso vogliono dare ai localismi o ai regionalismi. Siamo ancora a una fase embrionale dello state-building e non paiono incoraggianti le recenti prospettive di riconciliazioni guidate da Ghassan Salamè (inviato speciale ONU), che pare essersi arenato come i suoi predecessori. Intanto, i regionalismi emergono nel fatto che la Cirenaica, in parte sotto il controllo di Haftar, appare già qualcosa di autonomo e diverso rispetto alla Tripolitania, gestita dal governo ONU e da una serie di milizie che ne garantiscono l’esistenza precaria.

Qual è un attore locale poco conosciuto in Italia ed Europa ma assolutamente centrale nel Paese?

Mi sento di dire che non ce n’è uno solo. Siamo in una situazione talmente frammentata che è difficile fare il nome di una sola componente. Potremmo dire le minoranze Tuareg, Tebu e berbere. Sono state ai margini del processo politico della nuova Libia, ma rimangono attori fondamentali, per esempio nel campo della sicurezza e del controllo dei confini. Andrebbero portati a bordo della nuova Libia, e non lasciati ai margini.

Cosa manca nella strategia italiana in Libia? O cosa, comunque, andrebbe migliorato?

Se con strategia intendiamo quella finalizzata al controllo dei traffici umani, ha avuto parziale successo: i flussi si sono ridotti a un terzo dal luglio 2017. Ma la collaborazione con i libici, date le condizioni in cui versa l’amministrazione del paese, resta precaria. Il perdurare della crisi e i relativi rischi connessi impongono una visione più ampia che, pur dando al fenomeno migratorio la sua giusta rilevanza, sia mirata alla stabilizzazione del paese sul piano politico, economico e della sicurezza. Io penso che l’Italia debba prendere atto, con molto realismo, del fallimento dei negoziati ONU. Ci abbiamo provato, abbiamo messo a operare le Nazioni Unite ma, al di là dell’adesione formale, dietro il Palazzo di Vetro molte potenze hanno continuato a spingere per attori locali diversi, finendo per parcellizzare il quadro politico e militare. Bisognerebbe metterci la faccia e agire in prima linea, convocando una conferenza internazionale. Penso che sia il momento opportuno e credo ci sia anche lo spazio politico. Sempre che esista un governo italiano in grado di farlo.

Le milizie di Misurata e Haftar possono trovare un accordo?

Alcune milizie sembrano irriducibili, tuttavia non sono mai state coinvolte in prima persona. Tutto il processo di negoziazione è basato su una finzione, quella cioè secondo cui gli attori politici sono rappresentativi dell’intera società libica. Non è così. Bisogna mediare direttamente con le milizie, offrire loro un’alternativa credibile alla lotta armata.

È verosimile un rinvio delle elezioni e una divisione del paese?

La situazione è ancora troppo nebulosa per fare previsioni. Io penso che le elezioni non siano sinonimo di democrazia. Soprattutto in Libia, dove non vi sono le condizioni di base per una convivenza civile, un monopolio dell’uso della forza e un chiaro patto sociale tra i cittadini. Farle è molto rischioso, poiché vi è la possibilità di una nuova polarizzazione politica e militare, come peraltro accaduto già nel 2014. Ricostruire la legittimità del paese è un processo molto lungo, che non ammette scorciatoie e che forse passa più dal tentativo di una buona governance che non da un nuovo processo elettorale.