Sono passati esattamente due anni da quando la Lega Nazionale per la Democrazia della leader birmana Aung San Suu Kyi ha vinto le elezioni in Myanmar. Le elezioni legislative del 2015 furono le prime dalla fine della dittatura militare iniziata nel 1960. La giunta al potere aveva costretto la “Signora”, come Suu Kyi viene affettuosamente chiamata dai suoi sostenitori, a quasi 15 anni di arresti domiciliari per la sua lotta non violenta a favore della democrazia. Negli ultimi mesi, però, la figlia del padre dell’indipendenza birmana, il generale Suu Kyi morto nel 1947 per mano dei suoi oppositori, è stata aspramente criticata per non aver difeso apertamente l’etnia Rohingya, la minoranza musulmana vittima di una vera e propria operazione di pulizia etnica da parte dell’esercito.
Un editoriale pubblicato da Irrawaddy, gruppo di giornalisti indipendenti birmani, ha invitato a non sottovalutare l’instabilità dovuta alle violenze nello stato di Rakhine per la fragilissima democrazia birmana. Per questa ragione, si spiega nell’articolo, la comunità internazionale dovrebbe portare avanti iniziative diplomatiche diverse da quelle attuali, che tengano conto della complessità del problema, assai più di delicato di come viene percepito in questo momento.

La soluzione per la crisi spetta al governo birmano, guidato da Aung San Suu Kyi, e all’esercito, sul quale “l’orchidea d’acciaio” (quest’ultimo è un altro degli appellativi con cui è riconosciuta) non ha alcun potere di influenza. Suu Kyi, infatti, ha affermato a settembre di non essere in grado di bloccare le offensive dei militari contro i Rohingya. Alcuni osservatori, riferisce ancora Irrawaddy, hanno pertanto denunciato la presenza di due governi nel Paese, senza dimenticare che i militari, inoltre, continuano a controllare il 25% dei seggi nel parlamento birmano. La strategia della “Signora” sarebbe quindi agire senza far saltare il precario equilibrio politico birmano.
Il massacro dei Rohingya
Solo nello stato di Rakhine, dove la popolazione Rohingya è più numerosa, le violenze degli ultimi mesi hanno causato la morte di migliaia di persone e non di solo 400, per la maggior parte «terroristi islamici», come ha dichiarato il governo birmano. A confermarlo l’entità del massacro è un’indagine diffusa il 14 dicembre da Medici Senza Frontiere. Secondo il dossier redatto dall’organizzazione internazionale, tra il 25 agosto e il 24 settembre sono stati almeno 6.700 i Rohingya uccisi, circa 730 dei quali erano bambini con meno di 5 anni.

Le violenze consumate contro questo popolo sono di ogni tipo: colpi di armi da fuoco (69% dei casi negli adulti; 59% nei bambini), ustioni (9% negli adulti; 15% nei bambini), percosse (5% negli adulti; 7% nei bambini), esplosione di mine (2% nei bambini). Ai morti si aggiungono più di 647mila sfollati che sono stati costretti a lasciare le proprie case dopo la distruzione di interi villaggi.
La situazione è precipitata dopo le violenze del 25 agosto, giorno in cui militanti del gruppo armato musulmano ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) hanno attaccato 24 avamposti della polizia nel distretto di Maung Taw, vicino al confine con il Bangladesh, uccidendo 32 persone. La risposta dei militari è stata violentissima e da allora per i Rohingya non c’è stata più pace.
di Erminia Voccia

Redazione
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