Pericoloso: è questo l’aggettivo più efficace per descrivere i bombardamenti americani, inglesi e francesi che nella notte tra il 13 e il 14 aprile hanno colpito la Siria. Pericoloso non solo per coloro che da quei missili vengono fisicamente colpiti, ma anche per chi da oggi in avanti verrà colpito dalle conseguenze che quei missili avranno a livello globale.

I missili sono pericolosi per chi li ha lanciati, in particolare per quelle persone americane, i neocon, che attribuiscono agli Stati Uniti la funzione di “gendarme del mondo”, cioè di colui che è legittimato a rivendicare una propria egemonia mondiale anche attraverso interventi militari in zone remote (Balcani, Afghanistan, Iraq, Libia e oggi in Siria) in nome di una propria missione messianica battezzata col nome di “esportazione della democrazia”.

Questa tesi, che anima la volontà dei più importanti generali e uomini di Stato di cui Trump si è circondato, rischia di essere messa sotto scacco in Siria. Le motivazioni che gli Stati Uniti hanno dato in pasto all’opinione pubblica mondiale per convincerla della legittimità del loro intervento sono infatti estremamente deboli rispetto a quelle proposte in occasione di passati interventi militari di questo tipo.

 

Le prove deboli in mano agli USA

Se per esempio nel 2003 l’Amministrazione americana disse di avere le prove che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq, oggi gli americani hanno ammesso di non avere prove certe né sull’utilizzo né sul possesso di armi chimiche da parte di Assad. Il ministro della Difesa statunitense James Mattis ha ripetuto che gli Stati Uniti sono convinti che quello avvenuto a Douma sia stato un attacco chimico ma ha riconosciuto che fino ad oggi non si hanno le prove, che stanno invece ancora venendo cercate. Solo le squadre investigative, ha aggiunto, potranno in futuro dire «se avranno trovato o no le prove». Dato che si tratta di un gas non persistente «diventa sempre più difficile confermare l’attacco». I bombardamenti, inoltre, hanno colpito il deposito di armi di Barzeh, quartiere della periferia ovest di Damasco e prossimo alla Ghouta, dove si riteneva fossero state immagazzinate le armi in azione a Douma. Tale bombardamento ha preceduto di alcune ore l’arrivo della Commissione degli Osservatori delle Nazioni Unite per la verifica dell’utilizzo di armi chimiche, rendendo così molto più difficile il lavoro degli operatori.

Una delle poche cose finora certe, dunque, è che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia hanno bombardato la Siria senza poter provare il movente dell’attacco. Un azzardo molto rischioso per la credibilità internazionale di questa azione. Se queste prove effettivamente non arrivassero creerebbero un precedente molto pericoloso per la credibilità stessa dell’Occidente agli occhi del mondo. Senza queste prove i nemici dell’Occidente potrebbero rinfacciargli di aver aggredito un Paese il cui esercito sta combattendo i gruppi terroristici, di avere ignorato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di avere fatto precipitare ai minimi storici i rapporti con la Russia che già dal 2013 si impegna a garantire lo smaltimento dell’arsenale chimico di Damasco.

Ancora oggi, dopo quindici anni, l’immagine di Colin Powell, segretario di Stato ai tempi di G. W. Bush, che impugna una fialetta di false armi chimiche, è uno schiaffo alla credibilità internazionale americana. L’eventuale conferma dell’assenza di riscontri per l’odierno attacco alla Siria comporterebbe inevitabilmente un aumento della richiesta di disimpegno americano a livello globale e metterebbe in maggiore difficoltà le mire unipolari della parte neocon (evidentemente ancora maggioritaria) dell’Amministrazione di Washington.

Non solo. Secondo molte delle più recenti e affidabili indagini la morte delle 34 vittime nell’attacco di Douma non sarebbe stata causata dal famigerato sarin, gas condannato dalle convenzioni internazionali e che renderebbe legale un intervento punitivo. Sembrerebbe invece che nell’attacco sia stato utilizzato il cloro, sostanza potenzialmente letale ma tecnicamente legale a livello internazionale e che quindi renderebbe illegittima la reazione dell’Occidente. Il cloro non è condannato dalle convenzioni internazionali e non rientra nel programma di disarmo di cui la Russia è dal 2013 garante per la Siria. Il suo utilizzo non rappresenterebbe dunque alcuna violazione né di accordi presi né di trattati firmati. L’eventuale conferma dell’utilizzo del cloro, ovviamente, non sminuirebbe minimamente il presunto crimine commesso dal regime di Assad, ma metterebbe gli americani in una posizione ancora più difficile da giustificare: gli effetti del cloro, infatti, sono paragonabili con quelli del fosforo bianco, sostanza che l’esercito americano ha utilizzato in Iraq e probabilmente anche durante la liberazione di Raqqa. In questo caso gli Stati Uniti avrebbero bombardato la Siria per punirla per una modalità di combattimento che loro stessi utilizzano.

 

Fonti poco attendibili dietro i bombardamenti

L’attacco alla Siria è pericoloso perché, secondo alcuni analisti, potrebbe contribuire a rafforzare indirettamente la narrazione proposta dal terrorismo internazionale. Il presunto utilizzo delle armi chimiche a Douma é stato denunciato da due fonti: la prima è un agenzia di stampa legata all’Esercito dell’Islam (Jaysh el Islam), il gruppo terroristico finanziato fino all’anno scorso dall’Arabia Saudita e che ancora oggi lotta per fare cadere il governo siriano col fine di sostituirlo con uno Stato islamico; la seconda sono i White Helmets, una ong di volontari con sede in Turchia che presta assistenza alle vittime della guerra in Siria. Questa organizzazione è da anni nel mirino delle critiche perché agisce esclusivamente nei territori controllati dai ribelli (tra cui anche in quelli in mano all’ISIS e ai gruppi legati al Qaeda) e perché propone una narrazione del conflitto sempre ostile alla Russia e al regime di Assad, cosa che agli occhi dei suoi detrattori la rende una fonte poco attendibile.

In momentanea assenza di prove proprie e verificabili l’Occidente ha bombardato la Siria sulla base di fonti provenienti da soggetti ai quali ha così conferito una legittimità enorme. Con questa azione l’Occidente non sta certamente aiutando direttamente i terroristi (l’impegno americano e francese nella lotta all’Isis non è in discussione), ma sta fortemente dando credibilità a quella che molti analisti considerano una zona grigia che i terroristi avrebbero utilizzato per promuovere una narrazione organica ai propri fini.

 

La reazione dei siriani e il confine caldo con Israele

L’attacco contro la Siria è pericoloso soprattutto per il processo di riconciliazione nazionale in Siria. La società siriana è oggi infatti più frammentata che mai. Se la maggior parte dei siriani fuggiti all’estero è fortemente avversa al regime di Bashar al Assad, la grande maggioranza dei siriani rimasti in patria è schierata (in molti casi perché non può fare altrimenti) a fianco del proprio presidente dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza di vita sotto i gruppi ribelli.

La narrazione quasi sempre avversa ad Assad e spesso poco obiettiva proposta dai media occidentali a proposito del conflitto in Siria, ha generato nell’opinione pubblica siriana un forte senso di rigetto e di sfiducia verso l’Occidente e le sue istituzioni, cosa che ha spinto sempre più persone tra le braccia del partito Baath. La mattina dopo il lancio di missili da parte di USA, Regno Unito e Francia, le strade di Damasco e di diverse altre città si sono riempite di manifestanti che hanno sostenuto il governo e denunciato l’attacco subito. La sensazione sempre più diffusa è quella di essere vittime di un complotto internazionale orchestrato da oltreoceano, una sensazione ampiamente diffusa in tutto il mondo arabo che si sente vittima dei disegni espansionistici americani e che ha permesso ai leader arabi di alzare i toni non solo contro Washington ma anche contro Israele. Il leader di Hezbollah, Sayed Hasan Nasrallah, ha per esempio annunciato che in caso di ulteriore attacco il suo movimento risponderà bombardando le città israeliane.

È proprio il confine tra la Siria e Israele a essere oggi il terreno più caldo. Tel Aviv teme infatti l’avanzata di Hezbollah e delle truppe iraniane verso il Golan – area di confine tra Siria e Israele formalmente sotto controllo siriano ma che gli israeliani occupano dal 1967 – e sta facendo pressione su Mosca affinché contenga l’espansione iraniana nella regione.

Chi esce rafforzato?

Diminuzione della credibilità americana, legittimazione di fonti di informazioni opache, frammentazione sociale in Medio Oriente e inasprimento delle tensioni tra Siria e Israele sono dunque gli scenari generati da questo attacco.

Chi esce, invece, rafforzato da questo ginepraio? Prima di tutto la Russia, che ancora una volta si pone come unica forza di contenimento nella guerra ibrida tra Israele e l’asse sciita e che ancora una volta rende indispensabile la propria presenza in fase di negoziato. Bombardando il suo alleato siriano gli americani avrebbero voluto lanciare un segnale di supremazia rispetto a Putin, che però è stato avvertito dei bombardamenti da Macron, in caso contrario avrebbero reagito.

Ed è infine proprio la Francia a poter essere considerata come l’attore emergente in questa vicenda. Macron è stato il più determinato a insistere a favore dei bombardamenti, con l’obiettivo strategico di riaffermare la propria influenza nel Mediterraneo e nelle sue ex colonie, tra le quali appunto la Siria. Forti inoltre di profondi legami commerciali con l’Arabia Saudita, altro grande nemico di Assad, i francesi restano l’unica potenza europea dotata di forza nucleare e che siede all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Barcamenandosi in tale sede tra russi e americani e rivendicando un’egemonia in Europa e nelle proprie tradizionali aree di influenza, sembra che l’obiettivo dell’Eliseo sia quello di trarre vantaggio di una possibile crescente difficoltà americana, alla quale questi bombardamenti contribuiscono, per porsi come nuovo grande protagonista sulla scena internazionale.