L’America vede nel Mar d’Azov l’occasione per scatenare una sorta di tempesta perfetta che ha come fine minimo l’obiettivo di chiedere agli europei di aumentare le spese per la la Nato, Ma la vera posta in gioco è la rivincita sull’arco della crisi che va dal Baltico, alla Turchia e alla Siria.

Quella del Mar d’Azov è una tempesta perfetta. L’escalation dello Stretto di Kerch incendia le polveri del prossimo incontro tra Trump e Putin previsto ai margini del G-20 in Argentina. Questa volta non si scherza perché anche alla Casa bianca forse hanno capito che quando ci si mette nelle mani del discutibile presidente Poroshenko, mentre dall’altra parte c’è il leader del Cremlino, non si sa come va a finire. Il conflitto ucraino ha già fatto 10mila morti ed è costato a Kiev l’annessione della Crimea.

Per un Poroshenko sotto pressione, che sfrutta la legge marziale a fini interni per condizionare o far saltare le elezioni del marzo 2019, la tensione è una necessità: si tratta di far capire agli Usa e alla Nato di essere un asset strategico da proteggere. Vuole, in sintesi, un’investitura internazionale della sua autocrazia e tutto questo secondo lui val bene una pericolosa provocazione incrociata con Mosca.

Altro che difesa della democrazia nell’Est, dove questo ingrediente diventa sempre più scarso, sostituito da un mix di populismo e nazionalismo debordato nell’Occidente europeo.

Anche se poi tutta questa tensione sembra andare a favore proprio del gioco degli Stati uniti in Europa. Già si parla da parte dell’Unione di nuove sanzioni alla Russia e della sospensione del progetto North Stream 2, il gasdotto che collega la Russia alla Germania: e gli Usa qui già ci guadagnerebbero qualche cosa. Anzi non poco, visto che la cancelliera Angela Merkel si era impegnata con Washington ad acquistare il gas liquefatto americano proprio per avere il via libera al raddoppio del North Stream con Mosca.

Ma al di là di questi calcoli di cassa, l’America vede nelle acque turbolente del Mar d’Azov l’occasione per scatenare una sorta di tempesta perfetta che ha come fine minimo l’obiettivo di chiedere agli europei di aumentare ancora le spese per la difesa della Nato, un cavallo di battaglia di Trump e, prima di lui, di Obama. Per l’amministrazione americana è l’occasione di sfruttare con tempismo la Brexit e assestare all’Unione un’altra picconata: in pratica con l’uscita della Gran Bretagna, la Francia è rimasta l’unica potenza europea a essere membro del consiglio di Sicurezza Onu e anche una potenza nucleare. Gli Usa nell’Ue hanno un solo interlocutore dello stesso rango. Qualche cosa vorrà pur dire.

In realtà sono stati proprio gli americani a creare con la Nato questo caos ai confini orientali dell’Europa, un fenomeno descritto ieri nell’analisi sul manifesto di Tommaso Di Francesco, con l’allargamento esasperato dell’Alleanza Atlantica alle frontiere dell’ex Unione Sovietica e nel cuore dei Balcani.

Questa strategia ha dato assai fastidio a Mosca e per anni i russi hanno meditato la loro risposta venuta con l’intervento in Siria nel settembre 2015 e nell’insediamento di nuovi basi militari nel Mediterraneo e ai confini con la Turchia, lo storico bastione della Nato sul fianco sud-orientale. L’arco della crisi ucraina, parte del Baltico, attraversa la Crimea e arriva al Mar Nero fino al Medio Oriente e al Caucaso.

A sparigliare le carte è stata proprio la Turchia di Erdogan, che non è più il solido avamposto atlantico di un tempo, entrata nel 1952 nell’Alleanza Atlantica e con i missili nucleari puntati verso Russia e Iran.

Il Reis turco aveva già assai limitato il ruolo delle forze armate e dopo il fallito colpo di stato attribuito ai gulenisti del luglio 2016 ha fatto terra bruciata degli ufficiali filo-atlantici mentre con la guerra siriana è stato costretto a venire a patti con Putin e gli ayatollah.

A Mosca è così riuscito qualche cosa che forse non avrebbe mai immaginato. Alla fine della seconda guerra mondiale, durante la quale era rimasta neutrale, Ankara si era schierata con gli Stati uniti nella competizione della Guerra Fredda. I turchi vennero così aiutati dagli americani nel campo economico e della difesa. Questo era il dispositivo della «Dottrina Truman», il presidente che in un discorso del 1947 teorizzò la necessità di assistere Grecia e Turchia in termini economici e militari per impedire che diventassero Paesi filo-sovietici.

Quel bastione turco c’è ancora ma è pieno di crepe e nella regione gli Usa possono contare solo su Israele come alleato affidabile. In Turchia gli ufficiali di collegamento della Nato oggi sono tutti uomini di Erdogan, così come quelli dei servizi militari. Ma c’è di più: la Russia è riuscita a vendere ai turchi il sistema antimissilistico S 400 (consegna 2019). In poche parole Putin vende armi strategiche e anche centrali nucleari al suo nemico storico.

Ecco perché alla rivincita russa nell’arco meridionale della crisi, gli Usa e la Nato oggi intendono contrapporre la «loro» rivincita nel cortile di casa di Mosca: un vacillante ma ambizioso Poroshenko, sempre alla ricerca di prestiti dall’Unione e dal Fondo monetario, può servire allo scopo. Ma nessuna tempesta è davvero perfetta.

 

Alberto Negri

articolo pubblicato su Il Manifesto