Il sequestro è un reato gravissimo contro la persona. E chi lo gestisce tende, di solito, a chiudere tutte le vie di fuga, psicologiche e ovviamente anche fisiche, a chi è stato sequestrato. Una condotta molto brutale, sistematica e ferocissima, spesso anche prolungata nel tempo, che prima crea e poi innesca nella mente di chi la soffre degli effetti imprevedibili, ma con danni spesso incancellabili.
Sindromi vittima/carnefice
Probabilmente Silvia Romano sta ancora vivendo quello che Bruno Bettelheim, uno psichiatra ebreo che era stato rinchiuso nei campi di sterminio nazisti a Dachau e a Buchenwald, chiamava la “sindrome dell’identificazione”. Ovvero, tanto più forte è il tiranno e quanto più è inevitabilmente succube la vittima, sarà in questo caso proprio la vittima a recuperare le proprie forze solo facendosi parte della tirannia, per “godere della sua potenza”. Approccio molto adleriano, questo di Bettelheim, tutto incentrato alla ricerca dei rapporti di forza e quindi di potere in una relazione terribile e feroce.
Questo, più della classica “sindrome di Stoccolma”, sembra operare all’interno dell’accettazione da parte di Silvia Romano dell’Islam, forse superficiale come quella di un cattolicesimo tutto chitarre, peace and love, che la Romano mostrava di avere prima del sequestro. Certo, se vai a far giocare i bambini in un Paese come quello, sarebbe bene magari leggerselo prima, il Corano, invece di scoprirlo proprio quando sei sotto sequestro. Ma tralasciamo ora la santa ingenuità di chi si occupa di quella che Hegel definiva la “pappa del cuore”.
Dal 2001 sono stati effettuati 65 sequestri di cittadini italiani. 19 tra questi erano operatori umanitari veri e non inesperti come Silvia Romano, mentre negli ultimi sei anni il 52,5% dei rapimenti è avvenuto contro cooperanti di ONG e giornalisti (18%). I cooperanti delle ONG, anche quando sono specificamente addestrati, vanno sempre in zone molto pericolose, con squilibri sociali, umanitari e sanitari inenarrabili, e diventano quindi oggetti ideali per rapimenti e riscatti. Qui, per dirla con Elias Canetti, vince la “massa di distribuzione”, ovvero la polarizzazione tra chi distribuisce le scarse risorse, con finalità di controllo politico e sociale, e chi riceve sempre e solo quelle: una sorta di “sindrome di Stoccolma” economica.
La normativa internazionale
Comunque, la normativa internazionale vieta espressamente a tutti gli Stati la possibilità di recuperare i sequestrati, pagando semplicemente quanto richiesto dalle organizzazioni terroristiche o semplicemente criminali. Il dato giuridico primario di questa norma, ormai universale, si trova nella Convenzione di New York del 1979 e, poi, nelle Risoluzioni n. 2161 e 2170 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, entrambe risalenti al 2014. Nelle due Risoluzioni si proibisce agli Stati aderenti (ma qui la normativa è inevitabilmente ambigua, potrebbero essere anche tutti gli Stati internazionalmente riconosciuti) di finanziare movimenti terroristici, e qui ci sarebbe molto da dire, sia con dazioni dirette che con i pagamenti per i riscatti.
L’ordinamento nazionale italiano, poi, proibisce espressamente il favoreggiamento reale, con l’art. 379 c.p. Qui il concetto è un po’ diverso da quello del sequestro vero e proprio, ma la nostra norma penale ci dice che chiunque aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato (il pagamento del riscatto, in questo caso) è punito con la reclusione fino a cinque anni.
Chi paga
Una giornalista del New York Times ha scritto recentemente che tutti i governi europei hanno pagato (dal 2008 in poi) almeno 125 milioni di Usd in riscatti, di cui ben 66 milioni pagati soltanto nel corso del 2007. I riscatti sono la principale fonte di finanziamento per Al Qaeda in Africa del Nord, in Yemen, in Iraq e in Siria.
Il riscatto è illegale ma razionale. Permette a uno Stato di non lasciarsi invischiare in caos regionali che non lo interessano affatto, chiude l’operazione con il minimo di clamore possibile, evita di infastidire con operazioni belliche quei Paesi che già sono presenti in zona, amici o nemici che siano. E gli Stati Uniti? Wahington paga a ottimo prezzo tutte le informazioni veritiere e efficaci, come ha fatto per i tantissimi suoi soldati catturati dai Taliban afghani. Altre volte gli Usa hanno trattato gli scambi di prigionieri, come hanno fatto con il soldato Bergdahl, scambiato con cinque Taliban tramite la mediazione del Qatar, che ospita ancora un ufficio, a Doha, di rappresentanza più o meno internazionale dei Taliban. Quindi non sono solo gli immorali e illegalisti italiani, ma anche tutti gli altri pagano il “pizzo” ai rapitori, sia pure con modalità diverse.
Il “manuale dei sequestri”
Dal 2004 al 2012, sempre secondo fonti giornalistiche Usa, ben 120 milioni di Usd di riscatti sono arrivati a tutti questi gruppi, e la sola filiale yemenita di Al Qa’eda in Yemen ha raccolto ben 20 milioni di dollari. Fu nel 2004 che “La Base”, o meglio “La Base salda”, ovvero ancora Al Qa’eda al Sulbah”, scrisse un vero e proprio “Manuale dei Sequestri” che ci risulta sia ancora utilizzato da quel gruppo.
Per minimizzare le perdite e le informazioni incontrollate, il Manuale di Al Qa’eda raccomanda l’outsourcing dei rapimenti ai gruppi di criminali comuni, poi i negoziatori riconosciuti si prendono il 10% del totale del riscatto, e ciò crea una forte tendenza ad aumentare il “prezzo” di ogni rapimento. Per qualsiasi Servizio Segreto in area di riscatti, il vero lavoro è quello di riconoscere, tra i tanti, il vero negoziatore, per evitare di dare soldi a tutti i finti mediatori che appaiono in un attimo, come un nugolo di mosche. Il povero Nicola Calipari era un maestro, a questo riguardo.
Il jihad è soprattutto una guerra psicologica, quindi si raccomandano nel Manuale di Al Qaeda lunghi silenzi iniziali, per aumentare il panico nel Paese che lo subisce. Poi arrivano i video (pagati a parte) dove i rapiti chiedono ai loro Stati e alle famiglie di pagare presto e bene il riscatto, poi gli altri eventuali video, per mostrare l’esistenza in vita dell’ostaggio, che vengono ancora pagati a parte e fatti arrivare alle reti TV locali. Il numero dei rapiti uccisi è diminuito nel tempo, arrivando oggi, dal 2008 in poi, al 15% del totale.
L’Italia e i soldi tracciati
L’AISE (il vecchio SISMI) è l’Agenzia deputata a raccogliere, analizzare, verificare le informazioni sensibili per la sicurezza delle Istituzioni, delle imprese, delle Associazioni e dei singoli cittadini italiani operanti all’Estero. Il Servizio ha già una spesso collaudatissima rete di informatori nei Paesi “pericolosi”, soprattutto in aree che sono interessanti per l’Italia per motivi economici, politici o militari. In Somalia abbiamo ancora una Base militare, l’EUTM, nella Repubblica di Gibuti. È intitolata (e questo mi fa molto piacere) al Ten. Amb. Amedeo Guillet e dipende dal COI, il Comando Operativo di Vertice Interforze con sede oggi all’aeroporto “Francesco Baracca” di Centocelle.
Certo ogni Servizio estero opera in collaborazione con quelli locali, e quindi nel caso di Silvia Romano gli operatori dell’AISE hanno contattato immediatamente i “servizi collegati” turchi (Ankara è membro molto autonomo della NATO) e i Servizi locali, compresi quelli somali, che spesso l’AISE ha addestrato in Italia. Il resto è silenzio, naturalmente, ma l’importante è che, pur con tutte le ambiguità del caso, di cui è stata responsabile la comunicazione del Governo, l’AISE abbia dimostrato, anche ai jihadisti somali, che può riportare i propri cittadini a casa. I soldi, come accadeva anche con la criminalità organizzata, sono ben seguiti e segnati, e sono un tracciante pericolosissimo, anche se i rapitori li spendessero tutti in loco.
This file photo taken on July 24, 2000 shows Abu Sayyaf gunmen displaying their weapons in their jungle camp in Jolo. Islamic militants based on remote southern Philippine islands have suffered major setbacks in recent weeks but authorities say on March 3, 2010 they are concerned about the group’s growing bomb-making capabilities. AFP PHOTO / FILES
Pubblicato su alleo.it
Marco Giaconi
Laurea in Filosofia moderna e contemporanea presso l’Università di Pisa. Dal 1992 in è prima direttore e poi direttore di ricerca presso il Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici). Nel 2000 è Consigliere del Ministro della Difesa Antonio Martino. Dal 2003 in poi è Consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore di numerosi saggi.
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