Nigeria, operazione contro Boko Haram

La lotta contro Boko Haram, che va avanti ormai da più di un decennio, si è concentrata principalmente sulla forza militare, creando una spirale di violenze e tensioni. Negli ultimi anni, e in particolar modo dal 2016 con l’operazione Safe Corridor, si è posto l’accento su metodi di rieducazione che nonostante presentino problemi possono contribuire alle defezioni e a una lenta riconciliazione.

1. OLTRE L’APPROCCIO MILITARE

Le operazioni militari nel nord-est della Nigeria e vicino al bacino del Lago Ciad hanno ottenuto scarsi risultati nella lotta all’insurrezione contro Boko Haram (le due fazioni JAS ISWAP), mostrando le difficoltà della Nigeria – e degli Stati della regione in generale – nell’adeguarsi alla svolta dei gruppi verso il controllo della popolazione e del territorio. Negli ultimi anni è emersa la consapevolezza dei Governi verso un approccio volto a coadiuvare le operazioni militari con programmi di recupero e di contrasto effettivo al reclutamento da parte dei terroristi. Programmi che sono fondamentali per offrire una via di uscita ai militanti di rango inferiore, pentiti, costretti a seguire i gruppi ribelli sotto ricatto o semplicemente abitanti delle aree da loro controllate. Considerata l’importanza delle donne e dei bambini nella regione del Lago Ciad per l’insurrezione di Boko Haram – esposti a violenze e reclutamento per gli attacchi terroristici – c’è necessità di un impegno sempre maggiore verso la rieducazione e la riabilitazione dei minori, in una politica di antiterrorismo comprensiva che punti a disimpegno, de-radicalizzazione e appunto riabilitazione.

Fig. 1 – Il relitto di un’auto colpita da un attacco di Boko Haram circondata da residenti del distretto Adam Kolo di Maiduguri il 24 febbraio 2021. I jihadisti hanno assaltato la città di Maiduguri uccidendo 16 persone, tra cui nove bambini che stavano giocando a calcio in un campo, ha riferito la milizia locale all’AFP

2. L’OPERAZIONE SAFE CORRIDOR

Dalle conclusioni del Governo della Nigeria riguardo all’impossibilità che l’insurrezione potesse essere sconfitta facendo affidamento solo sulla forza militare, nel 2016 è nata l’operazione Safe Corridor, un programma multisettoriale che coinvolge diverse agenzie governative che amministrano progetti specifici. L’operazione è gestita dal personale militare del Governo federale con il contributo di donatori esterni (su tutti Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti tramite l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), e svolge il compito di offrire un passaggio sicuro per la riabilitazione degli uomini di Boko Haram che decidono di consegnarsi alle Autorità. Safe Corridor è pensata soprattutto per quelle reclute di rango inferiore che svolgono però ruoli importanti per il funzionamento quotidiano di Boko Haram e per la sua operatività. La struttura principale dell’operazione è nello Stato di Gombe, a Mallam Sidi, adiacente all’epicentro dell’insurrezione jihadista, nello Stato del Borno. In quello che dovrebbe essere un periodo di sei mesi gli ospiti entrano in un percorso di de-radicalizzazione che comprende formazione vocazionale e supporto psicologico, volti a una completa rieducazione e al reinserimento in società.

Fig. 2 – Detenuti sospettati di legami con i jihadisti di Boko Haram camminano in fila dopo essere stati liberati e consegnati a funzionari statali per la riabilitazione e l’integrazione, durante una cerimonia ufficiale presso la caserma militare di Giwa, a Maiduguri, il 27 novembre 2019

3. UNA STRATEGIA POSITIVA MA PROBLEMATICA

L’International Crisis Group (ICG), avvalendosi di interviste a partecipanti del programma, ne delinea però alcune criticità: violenze da parte dei militari, strutture di transito verso Mallam Sidi non adeguate e difficoltà di determinare identità e status dei candidati al programma (combattenti, sfollati o semplici civili). L’ICG riporta che molti donatori temono che i loro fondi non siano impiegati a dovere e sono cauti circa ulteriori investimenti nel programma. Per quanto riguarda le comunità, nella misura in cui sono disposte a considerare di accettare di nuovo coloro che sono associati a Boko Haram, spesso insistono sul fatto che per poter avviare pratiche di riconciliazione dovrebbero prima essere risolti tutti i conflitti violenti e sono diffidenti verso quella che considerano un’amnistia per i terroristi. Un’ulteriore limite è l’estesa presenza delle milizie di autodifesa anti-Boko Haram chiamate Civilian Joint Task Force (CJTF) nel nord-est, determinanti nella lotta contro i jihadisti, ma sempre più indisciplinate e frustrate, che sfidano ogni forma di autorità e si oppongono al reintegro. Se il Governo nigeriano e i suoi partner intendono portare avanti una politica e un programma di recupero – che nonostante i suoi limiti ha determinato diverse defezioni – dovrebbero sensibilizzare la società sull’importanza della riabilitazione, migliorare le condizioni di detenzione e limitare gli impulsi di vendetta. Aspetto fondamentale è infine uno screening più mirato dei candidati, perché effettivamente vengano inseriti nel programma solo coloro per i quali il programma è pensato, che dovranno essere seguiti una volta usciti dal “corridoio” nel loro reinserimento in società. La sola esistenza del programma ha implicato un aumento delle defezioni da Boko Haram e, potenziandola, l’operazione potrebbe essere uno strumento giuridico ancora più utile contro l’insurrezione jihadista.

Di Daniele Molteni. Pubblicato su Il Caffè Geopolitico

Flintlock 2018 training in Tahoua, Niger” by USAFRICOM is licensed under CC BY