Sudan, il potere dei militari e gli interessi in gioco

Una crisi per procura. È quello che è diventato il Sudan a distanza di quattro mesi dalla destituzione da parte dei militari del dittatore Omar Al Bashir, che era stato ininterrottamente al potere dal 1989. A smascherare il gioco che, dall’esterno, viene condotto da potenze regionali ed extraregionali, sono stati definitivamente i fatti dello scorso 3 giugno, giorno in cui le manifestazioni di piazza organizzate a Khartoum da cittadini, esponenti dei sindacati e delle opposizioni sono state soffocate nel sangue dall’esercito: circa 120 i morti e oltre 500 i feriti, ma si tratta verosimilmente di un bollettino al ribasso rispetto a quanto realmente accaduto.

Per andare alla radice della tensione latente che attraversa ormai da mesi la capitale sudanese è necessario provare a decifrare la partita che, come detto, si sta conducendo oltre il punto di confluenza in cui si incrociano Nilo Bianco e Nilo Azzurro e guardare più a nord: alle potenze del Golfo Persico, in primis, ma non solo.

Al netto degli interessi economici (Cina) e militari (Russia) che gravitano nel Paese, in questa delicata fase della transizione del potere i blocchi contrapposti sono due: da una parte Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti con l’appoggio regionale dell’Egitto di Abdel Fattah Al Sisi; dall’altra il fronte della Fratellanza Musulmana formato da Qatar e Turchia.

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I militari sudanesi al soldo di Riad e Abu Dhabi

Il nuovo corso militare che ha preso il sopravvento nel Paese, costringendo Al Bashir a un passo indietro, è stato e continua a essere foraggiato da Riad e Abu Dhabi. Il perché del regime change è sotto gli occhi di tutti. Dal blocco diplomatico e commerciale con cui, da metà 2017, Casa Saud ha stretto la morsa attorno al “dissidente” Qatar, l’ex dittatore sudanese ha tentato una presuntuosa strategia di equilibrismo nella convinzione di poter continuare a fare affari tanto con l’uno quanto con l’altro fronte. Si sbagliava. Sotto traccia l’Arabia Saudita ha infatti portato avanti un graduale lavoro di erosione del suo consenso, comprandosi quei militari che nell’aprile scorso hanno deposto Al Bashir.

I flussi di denaro piovuti sulla nuova giunta militare al potere confermano questa tesi. Dopo il golpe Arabia Saudita ed Emirati hanno finanziato il Consiglio militare di transizione con una cifra non lontana dai 3 miliardi di dollari e provveduto a far arrivare a Khartoum mezzi militari per tenere a bada le proteste. A beneficiare direttamente della generosità delle due petromonarchie sono stati gli esponenti di punta del Consiglio militare: il capo del Consiglio, il generale Abdel Fattah Al Burhan, e il luogotenente Mohamed Hamdan Dagalo (noto come “Hemeti”), quest’ultimo a capo delle Forze di supporto rapide, le milizie janjaweed che per anni su ordine di Al Bashir si sono macchiate di atroci violenze nel Darfur. Entrambi hanno guidato la discussa missione sudanese scattata in Yemen dal 2015 su richiesta di Riad con l’invio di oltre 8mila militari contro i ribelli sciiti Houthi appoggiati da Teheran. Finiti nel mirino delle critiche dell’opinione pubblica sudanese per l’“insensatezza” delle operazioni condotte in Yemen, Al Burhan e Hamdan hanno tenuto duro in questi anni. E pochi mesi fa sono passati all’incasso.

Le similitudini con le primavere arabe in Egitto e Bahrein

Da quanto accaduto in Sudan negli ultimi mesi emergono delle similitudini piuttosto evidenti con il dopo primavere arabe di Egitto e Bahrein. In Egitto, nell’estate del 2013, furono sempre Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti a sostenere sul piano diplomatico ed economico il golpe con cui l’allora generale dell’esercito egiziano Al Sisi si sbarazzò del presidente democraticamente eletto Mohammed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana. Una mossa che permise a Riad e Abu Dhabi di “bonificare” un Paese nevralgico del Nord Africa come l’Egitto dalla presenza ingombrante dei Fratelli Musulmani al potere, per portare a termine la quale non fu risparmiato il sangue. Solo nei giorni immediatamente successivi al colpo di stato le vittime, tra sostenitori della Fratellanza e semplici civili, furono oltre 800. Questa similitudine non è passata inosservata tra chi, in questi mesi, è coraggiosamente sceso in piazza a Khartoum per chiedere ai militari una transizione democratica e non imposta del potere. Nelle marce pacifiche sono stati in tanti, infatti, a camminare al grido di “Vittoria o Egitto” rievocando le mattanze che accompagnarono l’ascesa di Al Sisi. Due anni prima, nel 2011, nei mesi caldi delle primavere arabe le autorità di Manama non esitarono invece a servirsi direttamente del supporto di truppe saudite per annichilire le proteste dei manifestanti accampati a Pearl Roundabout.

Possibili scenari futuri

Considerati i timidi appelli a fermare le violenze sui civili da parte di Stati Uniti e Unione Europea, e l’intenzione di Cina e Russia di non interferire sulle vicende interne al Paese ma, semmai, consolidare i rapporti con l’establishment militare salito al potere, è inevitabile che è e rimarrà l’esercito a guidare il Sudan del dopo Al Bashir.

Il vero interrogativo a cui resta da dare una risposta è capire se e quando ci sarà una reazione da parte del blocco formato da Doha e Istanbul. Difficile credere, almeno nel breve periodo, che lo scontro per procura tra i due fronti degeneri in conflitto aperto come è accaduto dal 2011 in Siria e poi in Libia e, più indietro nel tempo, in Somalia.

Al contempo è però anche improbabile che Qatar e Turchia si rassegneranno al ruolo di sconfitti. Nel 2018 il Qatar ha firmato con Khartoum un accordo del valore di 4 miliardi di dollari per ampliare il porto sudanese di Suakin nel Mar Rosso, operazione di cui ha beneficiato anche Ankara che ha così potuto disporre di un avamposto navale in un’area strategica dal punto di vista militare e commerciale. Una cosa, pertanto, è certa. Seppur costretta a muoversi da una posizione di debolezza, Doha farà di tutto per non vedere svanire nel vuoto questo enorme investimento.

Foto di copertina: Reuters, via Twitter