L’Ucraina tra aspirazione europea, rapporto con la Russia e territori contesi.
L’Ucraina è stata spesso oggetto di contesa a livello nazionale e internazionale. Alle spalle, la presenza dell’Unione Sovietica, prima, e della Russia ora. Motivo di grande sofferenza sono stati sia l’occupazione nazista fra il 1941 e il 1944, sia il disastro ambientale di Chernobyl. Una prima vera boccata d’aria è giunta solo nel 1991 con la dissoluzione dello stato sovietico e la conseguente indipendenza dell’Ucraina. Il raggiungimento dell’indipendenza non è bastato però ad acquietare la situazione interna del Paese, colpito successivamente da due rivoluzioni: la Rivoluzione Arancione del 2004, e la rivoluzione dell’Euromaidan del 2014. La guerra, tutt’ora in atto, ha sicuramente perso l’incessante ritmo avuto durante il biennio 2014-2015. Ciò nonostante, sembra ben lontana da raggiungere una risoluzione definitiva. Gli scontri, seppur di minor natura, persistono come testimoniato dagli ultimi report che registrano in data 10 agosto 2019, la morte di una guardia ucraina in seguito ai bombardamenti dei separatisti nella regione del Donbass.
La Rivoluzione Arancione trae origine dalle fragili condizioni politiche ed economiche dell’Ucraina nel 2004, le elezioni avvenute nello stesso anno sono da considerare il reale fattore di rivolta. Nel 2004 Viktor Yuschenko, leader dell’opposizione e filoeuropeista, e Viktor Yanukovych, filorusso e già primo ministro nel 2002, andarono al ballottaggio, che dichiarò Yanukovych vincente. Le elezioni furono falsate, come poi confermato dall’annullamento dell’esito del voto da parte della Corte Suprema. Questa frode elettorale spinse Yuschenko a chiedere ai propri sostenitori di scendere in piazza e protestare contro tale ingiustizia. I dissenzienti scelsero come colore di riconoscimento l’arancione, lo stesso usato da Yuschenko durante la campagna elettorale. Le violenti proteste portarono a nuove elezioni che, nel dicembre 2005, incoronarono, questa volta in regime di legalità, Yuschenko nuovo leader del paese. Questo esito risultò molto importante per l’Ucraina, che, complice il mandato di Yuschenko, si avvicinò all’Europa, tanto da volerne chiedere l’adesione.
Malgrado gli sforzi rivoluzionari, anche pagati con il sangue, lo Stato ucraino vide la figura di Yanukovych incombere dinuovo sul Paese, portando nuove incertezze e vanificando il percorso portato avanti nel precedente mandato.
Di fatto, le elezioni presidenziali del 2010 videro vincitore Yanukovych, a scapito dell’eroina della rivoluzione arancione Yulia Timoshenko, arrestata un anno dopo con l’accusa di abuso di potere per uno scandalo che coinvolse Gazprom. Le intenzioni filorusse di Yanukovych sono state subito chiare: in poco tempo l’Ucraina rinunciò al sogno di aderire a Nato ed Unione Europea. Il popolo ucraino però non perse la speranza e scese nuovamente in piazza nel 2013 portando avanti manifestazioni pro-Europa e contro l’amministrazione Yanukovych. Il governo cercò di arginare le rivolte emanando un pacchetto legislativo composto da 12 leggi, cosiddette anti-protesta. Il climax delle contestazioni venne raggiunto nel febbraio 2014 con la rivolta dell’Euromaidan, che vide quasi 250.000 persone marciare verso il parlamento unicamerale ucraino, la Verkhovna Rada. Lo sforzo popolare non fu vano: le leggi anti-protesta furono rimosse, l’allora primo ministro Azarov rassegnò le dimissioni e il presidente Yanukovych lasciò il Paese per non tornare più.
Le nuove e necessarie elezioni del maggio 2014, data che segna la dipartita di Yanukovych, videro vincitore Petro Poroshenko, noto imprenditore già ministro degli Affari Esteri e successivamente ministro dello Sviluppo Economico. Poroshenko, pur criticato per i suoi evidenti interessi lucrosi, mantenne tuttavia una posizione molto più incline a ll’Occidente rispetto al predecessore, riaprendo le possibilità di adesione a NATO ed UE e firmando l’importante accordo di Associazione tra Unione Europea e Ucraina.
La vittoria della volontà popolare in Ucraina non fu ben digerita in Russia. La risposta del Cremlino al rigetto ucraino nei confronti del governo filorusso non si fece attendere, geolocalizzandosi in due aree differenti. In ordine cronologico, l’intervento russo avvenne prima nella penisola di Crimea e poi nella regione del Donbass.
L’annessione della penisola fu un processo iniziato con il malessere della popolazione nei confronti del nuovo governo instauratosi Paese e con il mancato riconoscimento da parte delle autorità locali dello stesso. Le autorità locali decisero di indire un referendum sulla possibile autodeterminazione della penisola e la conseguente scissione dall’Ucraina. Il referendum rispecchiò la volontà popolare spianando la strada all’indipendenza, ma il referendum non venne riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale, eccetto la Russia, in quanto la procedura avrebbe infranto sia la Costituzione Ucraina sia il diritto internazionale. In pratica però è possibile parlare dell’annessione ben prima del referendum del 16 marzo: dopo pochi giorni dalla Rivoluzione dell’Euromaidan, truppe locali armate, che in futuro si rivelarono essere militari russi sprovvisti di contrassegno, iniziarono a entrare progressivamente. Il 27 febbraio 2014 presero possesso delle istituzioni locali e posero come nuovo leader della regione il filorusso Sergej Aksënov. Come atto finale di questa operazione di estensione territoriale, il 18 marzo 2014, la Repubblica di Crimea e la Federazione Russa firmarono il trattato per l’annessione della penisola alla Federazione. Il giorno dopo, le forze armate ucraine vennero ritirate forzatamente dal governo, segnale indicativo del fatto che il processo non poteva più essere fermato. Oggi, il territorio è definito della Federazione come “circondario federale di Crimea”, costituito dalla Repubblica di Crimea e dalla città federale di Sebastopoli. La Russia venne aspramente criticata dalla comunità internazionale per questa operazione territoriale, in quanto infranse più accordi internazionali, fra i quali quello di Helsinki. La risposta internazionale si tradusse nell’imposizione di sanzione economiche contro la Federazione, in tre ciclicità, che influirono anche sul collasso del rublo e sulla conseguente crisi finanziaria russa del 2015.
Il terzo ciclo di sanzioni trova la sua causa nell’intervento militare russo nella regione del Donbass. L’inizio di questa operazione ricalca il modello utilizzato nei confronti della penisola di Crimea. Il 6 Aprile 2014 le forze armate separatiste, supportate dal governo russo, occuparono le istituzioni locali delle regioni (oblast) di Donetsk, Lugansk e Charkiv. Questa procedura di occupazione venne preceduta dalle proteste pro-Russia, prima presso il distretto di Donetsk, e poi in quello di Lugansk, nelle quali la popolazione richiedeva un referendum per la scissione dall’Ucraina, come nel recente caso della Crimea. L’oblast di Donetsk fu proclamata Repubblica Popolare di Donetsk il 7 aprile, mentre l’oblast di Lugansk raggiunse lo status di Repubblica Popolare di Lugansk il 27 Aprile, ottenendo entrambi l’indipendenza l’11 maggio con un referendum che ancora una volta non venne riconosciuto dalla comunità internazionale. La risposta del governo ucraino capeggiato da Turčynov prese forma con l’operazione “anti-terrorismo”, mirando a ristabilire ordine nelle aree contese. Malgrado il fallimento iniziale, costato non poche vite umane, l’esercito ucraino riuscì progressivamente a riacquisire il controllo sulle truppe separatiste, tanto da necessitare l’intervento russo. Dall’esterno non vi è stata prova flagrante di coinvolgimento diretto, sino all’irruzione delle armate russe, che portarono alla vittoria sulle forze ucraine presso Ilovasik nel mese di agosto e alla tragedia del volo di linea Malasyan Airlines MH17. Quest’ultimo evento richiamò l’attenzione della comunità internazionale: l’aereo di linea fu abbattuto da missili antiaerei “Buk”, dotazione militare russe in mano ai ribelli separatisti.
Il primo periodo del conflitto, tra il 2014-2015, viene riconosciuto come il periodo più cruento, con ingenti perdite a livello umano, come anche testimoniato dalla strage di Odessa. Secondo i report delle Nazioni Unite, in questo periodo ci furono 9.100 morti e quasi 21.00 feriti. La violenza protrattasi in questi due anni e la battaglia di Ilovasik divennero fattori fondamentali per il raggiungimento del temporaneo armistizio, culminato dalla firma del protocollo di Minsk nel febbraio 2015. Nonostante la costante estensione della tregua, la situazione rimase instabile: il 2016 e il 2017 venne marcato da altri violenti scontri fra le forze ucraine e quelle filorusse. La costruzione del ponte sullo stretto di Kerch aumento la presenza delle flotte russe nell’area e allo stesso tempo restrinse notevolmente le possibilità di accesso al mare di Azov delle imbarcazioni ucraine. Di tutta risposta, il governo ucraino, complici le forti pressioni fatte dalla destra e dagli attivisti del paese, stabilì un regime di embargo economico nelle aree non controllate dal governo portando la produzione industriale nelle suddette aree ad un tracollo.
Il 2018 fu protagonista di nuove forte tensioni che preoccuparono nuovamente la comunità internazionale, in primis quella nel mare di Azov. Il 25 novembre 2018 due navi d’artiglieria della flotta ucraina in viaggio da Odessa a Mariupol, durante un tentativo di passaggio attraverso il mare di Azov, vennero attaccate da imbarcazioni della guardia costiera russa, le quali arrestarono gli equipaggi ucraini detenendoli presso la prigione di Lefortovo. Poroshenko non rimase inerme di fronte a tale nuovo affronto, interpretando l’attacco come un tentativo russo di assicurarsi il monopolio del mare di Azov. Il leader infatti impose la legge marziale per 30 giorni nelle regioni confinanti con la Federazione e in Crimea.
A fine 2018 ed inizio 2019, nuovi tentativi di tregua ebbero vita breve anche a causa della mancanza di volontà da parte di entrambe le parti. Ne è testimonianza l’armistizio indetto il 27 dicembre 2018, durato due giorni, dove entrambi i fronti accusarono il nemico di aver violato l’accordo per primi.
A tutt’oggi ci si interroga spesso sul futuro del conflitto e dei territori coinvolti. Malgrado la tragicità degli eventi, uno spiraglio di speranza permane. Il neoeletto Presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy, chiamato ad essere un attore determinato nel processo verso la pace, ha iniziato il suo mandato a maggio nel segno della tolleranza e della pace. Durante l’inaugurazione del mandato presso la Verkhovna Rada, il leader ha deciso di utilizzare la lingua russa al posto di quella ucraina. Una scelta storica considerando che, a partire dall’annessione di Crimea del 2014, i presidenti ucraini hanno sempre evitato l’utilizzo della lingua russa in pubblico. Proprio la lingua fu uno dei fattori determinanti nella apertura delle ostilità del 2014, con Poroshenko che riaffermò l’ucraino come prima lingua scatenando le ire della popolazione russa residente nel Donbass che considerava l’imposizione della lingua ucraina contraria alla propria cultura.
Durante la sua campagna elettorale, Zelenskiy si è preposto di porre fine al conflitto e alle tensioni che stanno lacerando il paese da ormai sei anni. Egli desirerebbe la pace, senza però piegarsi ai desideri separatisti e concedendo così territori. Anche per questo motivo, la risoluzione della crisi ucraina sembra ben lontana dal realizzarsi. La fazione separatista, fedelmente appoggiata dal governo russo, non nutre nessun tipo di fiducia verso il governo, ma anche se questo atteggiamento dovesse cambiare la pace non sarebbe garantita. L’influenza russa va ben oltre la questione di identità nazionale e di salvaguardia dei connazionali in territorio ucraino. L’ Ucraina è una pedina fondamentale nel mondo energetico e degli scambi. Nel primo caso, Gazprom tiene in pugno lo Stato ucraino decidendo arbitrariamente sulla concessione di forniture di gas a seconda dei rapporti dello stato ucraino con la Federazione. In più, l’accesso ucraino al Mar Nero ha da sempre ingolosito le aspirazioni economiche russe. Se monopolizzato dalla Federazione, permetterebbe ampie possibilità di scambio merci a livello marittimo e totale autonomia nella gestione dei gasdotti che foraggiano l’intera Europa.
Tenendo conto quindi dei fattori economici che imbrigliano la questione ucraina, si capisce quanto sia necessario un risoluto intervento di peace-keeping da parte dalla comunità internazionale. Si auspica un cambio di rotta improntato sul dialogo e la diplomazia e non su sanzioni economiche, le quali hanno portato solo all’inasprirsi del risentimento verso la comunità occidentale e l’Ucraina, da questa supportata, non facilitando quindi una situazione già fortemente complicata.
Luca Mazzacane
Nato a Pavia nel 1994, Dr. in Lingue e Culture Moderne presso Università di Pavia (BA), Dr. in Global Studies presso LUISS Roma, diplomato in Analisi del rischio politico presso l’Istituto Affari Internazionali di Roma; diplomato in Multimedia Journalism presso Deutsche Welle, a Berlino, tirocinante presso Formiche Edizioni. Appassionato di geopolitica, specialmente del mondo Est europeo. Parla fluentemente francese, inglese, russo e spagnolo.
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