Lo scorso 11 aprile un colpo di Stato in Sudan ha deposto il presidente dal pugno di ferro al-Bashir, accusato di genocidio e crimini di guerra e al potere da 30 anni. I militari hanno assunto la guida del Paese africano e hanno annunciato un periodo di transizione di due anni. Le ultime proteste erano scoppiate a dicembre 2018 e sono andate avanti per quattro mesi. I protagonisti delle rivolte, anche dopo la destituzione del Capo dello Stato, hanno continuato a manifestare per vedere instaurato di un Governo di tipo civile e non militare, violando il coprifuoco imposto dai militari. I manifestanti, dopo la gioia iniziale seguita alla destituzione di al-Bashir, hanno temuto per la permanenza al potere della classe dei militari. A Khartoum ci sono state nuove agitazioni finché sabto 13 aprile al-Burhan, capo di stato maggiore dell’esercito e fedelissimo di al-Bashir, ha accettato di incontrare l’Associazione dei professionisti sudanesi (SPA), il principale ispiratore delle manifestazioni degli ultimi mesi. Il giorno successivo, domenica 14 aprile, il Consiglio militare ha accettato la richiesta di formare un Governo civile, i cui membri saranno scelti dai partiti e dai principali attori delle proteste. Tra le concessioni c’è stata anche la promessa che il National Congress Party di al-Bashir e alcuni degli uomini del suo regime saranno esclusi dal nuovo Governo. Questo reportage da Khartoum era stato pubblicato sulla rivista Nigrizia a novembre del 2017.

Viaggio tra le distese di baracche e capanne di fango del campo profughi situato alle porte di Khartoum. Dove si riversano i flussi migratori che collegano l’Africa Subsahariana al Mediterraneo

Khartoum, Sudan

Nel viaggio in jeep verso il campo profughi di Mayo il centro ipersorvegliato di Khartoum scompare in lontananza, lasciando spazio a decine di chilometri di polvere, fango e povertà. Lungo il tragitto si passa per Soba, quartiere situato a sud-est rispetto al punto in cui convergono Nilo Bianco e Nilo Azzurro. Siamo a poco più di un’ora d’auto dalle luci di Nile Street, dove sfilano i palazzi governativi e il sontuoso Corinthia Hotel, conosciuto come l’Uovo di Gheddafi.

L’anticamera di Mayo è un misto delle contraddizioni che attraversano il Sudan del presidente Omar Al Bashir, dal 1989 a capo di un regime nato da un patto tra i militari e i vertici religiosi sunniti e che solo da pochi anni ha iniziato ad allacciare rapporti con l’esterno. Schiere di pneumatici per metà sotterrati separano la strada da un enorme cimitero che custodisce salme seppellite nella sabbia. Bambini inseguono a piedi scalzi un pallone in un campo delimitato da ammassi di rifiuti. A un tratto dal nulla spunta un compound di una ditta di costruzioni cinese e, subito dopo, file di container per navi cargo. Lo sfondo è dominato dai colori sgargianti delle moschee e dal richiamo alla preghiera dei muezzin.

Non c’è un punto preciso che segna il confine tra la città e il campo profughi. Basta però alzare lo sguardo e fissare le prime distese di baracche di legno e capanne di fango per capire di essere arrivati tra i “fantasmi” di Mayo. Quantificare la popolazione di questo posto, di cui il governo ha iniziato a parlare pubblicamente solo a inizio anni Novanta, è un’impresa complicata. Dalle ultime stime oggi dovrebbero viverci in modo sedentario circa 700mila persone. Il perimetro del campo si è allargato di riflesso alle crisi e alle guerre che hanno interessato il Sudan negli ultimi decenni: prima i conflitti tra governo centrale e separatisti del sud, poi il genocidio e i crimini di guerra nel Darfur di cui la Corte penale internazionale accusa il presidente Al Bashir, infine le violenze scoppiate in Sud Sudan dopo l’indipendenza ottenuta da Khartoum nel 2011.

Secondo l’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, ndr), nei primi cinque mesi del 2017 solo dal Sud Sudan sono entrati in Sudan 137mila profughi. Di questi, un numero consistente ha trovato riparo a Mayo, dove stanziano altre centinaia di migliaia di sfollati interni provenienti da Darfur, Kordofan, Nilo Azzurro, Nilo Bianco e Cassala.

L’emergenza sanitaria

Attualmente l’unica ong che opera all’interno di Mayo è Emergency. Dal 2005 l’organizzazione fondata da Gino Strada ha attivato un centro pediatrico nel quartiere di Angola, l’unico aperto a tutti all’interno del campo. Nella struttura c’è un via vai costante di madri giovanissime che portano in braccio bambini appena nati. In media sono cinquanta i pazienti visitati al giorno. Le patologie più riscontrate sono malattie gastrointestinali legate alla scarsa igiene e alla malnutrizione, complicazioni alle vie respiratorie, malaria, acute watery diarrhea, escherichia coli infection, ustioni, HIV, colera.

“Il campo – spiega Giuliano Paterniti, responsabile della gestione tecnica dei progetti di Emergency a Khartoum fino allo scorso agosto – è suddiviso in undici macro-aree e oltre cinquanta quartieri. Ci sono due advisor e dei popular committees per ogni distretto eletti dal governo. Per quanto possibile, sono loro a registrare i nuovi arrivi a Mayo”.

La gerarchia sociale tra le varie aree è definita dal livello di fatiscenza delle abitazioni. La parte storica di Asari, dove si stabilirono i primi insediamenti e dove oggi si trovano le scuole pubbliche e private che funzionano meglio, rappresenta ormai a tutti gli effetti un’estensione periferica di Khartoum. Altrove invece, dove il ricambio di profughi è costante, la gente si adatta a vivere in alloggi di fortuna. Angola assomiglia a una grande favela, un ginepraio di stradine dissestate e fognature a cielo aperto a cui è possibile accedere solo se accompagnati da uno dei capi della comunità locale. L’elettricità c’è in zone limitate, le latrine sono insufficienti, l’acqua viene presa dai pochi pozzi agibili e poi distribuita in delle taniche trasportate dagli asini. Si vive di espedienti, adulti e giovanissimi ogni giorno si incamminano verso il centro della capitale in cerca di lavori saltuari.

I flussi migratori

Secondo il rapporto del 2017 Migrants in Sudan realizzato dallo IOM (International Organization for Migrations) l’area di Khartoum rappresenta una delle tappe più battute da chi, a piedi e in pullman, dall’Africa Subsahariana punta ad arrivare in Nord Africa per tentare la traversata del Mediterraneo. Entrati in Sudan, sono in molti a stanziare nei campi profughi annidati alle porte della capitale. Da qui si riparte poi alla volta della Libia o dell’Egitto.

“Nonostante sia un Paese molto controllato al suo interno – spiega Paterniti – il Sudan di fatto non ha confini. Il suo territorio è troppo vasto per essere monitorato per intero. Inoltre, a discapito di quanto si possa credere all’estero, il Sudan ha una tradizione di accoglienza. Il caso emblematico è quello dei siriani. Il governo sudanese è uno dei pochi che li lascia entrare senza problemi. Arrivano a Khartoum in aereo da Damasco. Ci sono poi anche dei casi in cui sui flussi migratori tradizionali verso l’Europa si innestano altre rotte. Ad esempio, tra le migliaia di nigeriani musulmani che ogni anno vanno in pellegrinaggio a La Mecca, molti si fermano a Mayo”. Qui le famiglie si dividono: mogli, anziani e bambini restano e si costruiscono le case in cui vivranno, i maschi ripartono per andare in Europa.

Di giorno la convivenza tra la maggioranza musulmana (circa il 60%) e la minoranza cristiana (40%) non crea particolari problemi. La notte, invece, criminalità, violenze, omicidi e stupri anche di ragazzini sono una costante. Il controllo della prostituzione è in mano ai clan nigeriani. Tra i cristiani, invece, è dilagante l’abuso di alcolici altamente tossici che assunti in dosi massicce provocano danni neuronali irreversibili se non la morte.

Il ruolo dell’UE e dell’Italia

Dopo anni di ostruzionismo, il governo sudanese sta iniziando ad aprire le porte di Mayo anche a delegazioni di governi stranieri. Nell’ottica del migration compact promosso dall’Italia, l’Unione Europea si appresta a stanziare fondi in Sudan per arginare nel cuore dell’Africa i flussi migratori diretti verso il Mediterraneo. Il nostro Paese, non solo con Emergency ma anche tramite l’ambasciata a Khartoum e l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ha avviato un piano di iniziative che copre diversi settori: sanità, lotta alla malnutrizione, gestione dei rifugiati, contrasto al terrorismo. “Il Sudan – spiega l’ambasciatore italiano a Khartoum Fabrizio Lobasso – sta cercando di contenere l’arrivo di profughi attraverso la creazione di centri di accoglienza temporanei e il successivo smistamento degli sfollati in campi più grandi per evitare un’eccessiva stanzialità. Sono stati fatti dei passi in avanti per il contrasto all’immigrazione clandestina e per fermare le tratte di esseri umani controllate dalla criminalità organizzata. L’offerta di aiuto da parte dell’Italia è totale”.

Dunque, dopo anni di chiusure e silenzi la questione dei profughi in Sudan sta iniziando ad attirare l’interesse della comunità internazionale. Presto a Khartoum arriveranno fondi per affrontare l’emergenza. Ma il dialogo con il governo sudanese resta appeso a un delicato gioco di contrappesi. Se i fragili equilibri faticosamente raggiunti con il presidente Al Bashir dovessero saltare di nuovo come già avvenuto in passato, i fantasmi di Mayo finiranno nuovamente nel dimenticatoio. E per loro non ci sarà più alcuna speranza.

Khartoum al centro delle rotte migratorie

Secondo il rapporto 2017 Migrants in Sudan pubblicato dallo IOM, Khartoum è al centro delle rotte migratorie che collegano i Paesi dell’Africa Subsahariana alle coste del Nord Africa. Una delle tratte più battute parte da Kano, in Nigeria, prosegue per N’Djamena in Ciad e accede al Sudan passando per Al Junaynah. I flussi che partono da Nairobi (Kenya), Mogadiscio, Busaso e Burao (Somalia), e Djibouti si incrociano ad Addis Abeba (Etiopia) e oltrepassano il confine sudanese ad Al Gadarif. Sempre ad Addis Abeba convergono anche i migranti originari dell’Uganda, costretto a virare verso l’Etiopia a causa dell’escalation del conflitto in Sud Sudan. Da Asmara (Eritrea) la porta d’ingresso per il Sudan è lo Stato di Cassala. Da Khartoum, dopo uno stanziamento temporaneo nei campi profughi situati alle porte della capitale (oltre Mayo, vi sono anche Wad Al Bashir, Al Salam Omdurman e Jebel Awlia) i migranti si rimettono in marcia. Le coste egiziane si raggiungono passando per Atbara. Mentre nel sud-est della Libia si entra attraversando Selima. Una volta in Libia, superata l’oasi di Al Kufra, chi sopravvive a questo lungo ed estenuante viaggio giunge a Bengasi, Ajdabiya, Tripoli o Tunisi. La maggior parte delle disperate traversate del Mediterraneo parte da qui. I dati raccolti dallo IOM sono il risultato dell’incrocio delle testimonianze rilasciate da 308 migranti intervistati nell’area di Khartoum. I principali cinque Paesi d’origine sono Eritrea, Etiopia, Nigeria, Somalia e Kenya.

 Il progetto di de-radicalizzazione degli ex combattenti

Tra le iniziative portate avanti dall’Italia in Sudan c’è anche un progetto finalizzato alla de-radicalizzazione degli ex combattenti del sud. “Soprattutto negli ultimi due anni – spiega Vincenzo Racalbuto, direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo di Khartoum – il Sudan ha dimostrato di essere un Paese affidabile per ciò che concerne la lotta al radicalismo islamico. Nello Stato del Nilo Azzurro con UNDP (United Nations Development Programme) finanzieremo un programma di circa 1 milione di euro per favorire il reinserimento nella società degli ex combattenti dell’ultima guerra tra nord e sud del Paese. Sono in gran parte disabili, hanno perso gambe, braccia, occhi”. Obiettivo del programma è impedire l’infiltrazione e la ramificazione di cellule jihadiste nel Paese. “Se rimanessero rinchiusi in casa – prosegue Racalbuto – la frustrazione di non poter fare nulla per le loro famiglie li porterebbe ad avvicinarsi più facilmente ad ambienti fondamentalisti. Per il bene di questo Paese, è importante creare anche per loro delle opportunità di lavoro”.

Informazioni

Le macro-aree del campo profughi di Mayo

Abu Adem, Al Nasr, Tawidad, Ingas, Asari, Mandela, Yarmouk, Angola, Andalus, Al Waida, Gabbosh

Religione

In Sudan la religione maggiormente praticata è l’Islam sunnita (97% della popolazione). Dal 1983 vige la Sharia (la legge islamica, ndr). La principale scuola sunnita che ha fatto presa nel Paese è quella malikita: è una scuola che permette un certo grado di interpretazione dei testi sacri, dunque il Corano e la Sunna, a differenza del wahhabismo e del salafismo.